L’aggressività diffusa nella nostra società dipende da una lotta di egoismi. A cui bisogna rispondere spargendo generosità
di Salvatore Natoli
L’autorità diventa prepotente e perfino spietata quando si presenta col volto del bene Allora nessuno può fermarla e si autorizza a tutto, fino alla distruzione dell’avversario
L’autorità diventa prepotente e perfino spietata quando si presenta col volto del bene Allora nessuno può fermarla e si autorizza a tutto, fino alla distruzione dell’avversario
Oggi la democrazia è in crisi non solo perché sono in crisi le forme tradizionali di rappresentanza, ma anche e soprattutto perché il potere, seppure orizzontalmente distribuito, è tuttavia gestito da cerchie ristrette, e si concentra – specie quello economico – in poche mani. A ciò è da aggiungere che la democrazia procedurale – garanzia imprescindibile di ogni effettiva democrazia – di per sé non è sufficiente a evitare l’atomismo sociale: non riesce, per sé sola, a generare comunità. Capita allora di frequente che gli uomini si considerino reciprocamente come mezzi e reciprocamente si usino. Ora, una democrazia può offrire garanzie sufficienti per non nuocersi, ma non è sufficiente a che gli uomini si riconoscano, kantianamente, come fini. Certo, non è la forma politica perfetta, ma è quella – come si dice – «meno imperfetta».Sia pure con un’ideologia soft – l’esportazione della democrazia – si sono aperti teatri di guerra «in nome di valori» e, così, si sono calpestati diritti umani elementari.
Proprio per questo è bene diffonderla. Tuttavia, c’è chi ritiene che per diffonderla sia legittimo imporla, ma è improbabile che una democrazia possa essere imposta, casomai può essere fatta maturare, assecondata. Infatti, un potere diviene prepotente e perfino spietato non tanto quando è «normalmente» malvagio – per la naturale imperfezione degli uomini – ma quando si presenta con il volto del bene. Questo gli permette di arrogarsi il diritto di perpetrare qualsiasi delitto, e nessuno può fermarlo, anzi esso si pone alla guida di una guerra senza quartiere per realizzare un regime migliore, che poi è tale solo per il fatto di «ripetere» se stesso. In nome di giustizia e verità si pretende di fare adepti per la causa e ci si autorizza a tutto, fino alla totale distruzione dell’avversario, che non è semplicemente un nemico di guerra, l’ hostis, ma è l’ inimicus, il nemico da odiare, il «male assoluto» da sradicare. Lo hanno fatto i regimi totalitari, ma anche oggi non si è perso il vizio.
Proprio per questo è bene diffonderla. Tuttavia, c’è chi ritiene che per diffonderla sia legittimo imporla, ma è improbabile che una democrazia possa essere imposta, casomai può essere fatta maturare, assecondata. Infatti, un potere diviene prepotente e perfino spietato non tanto quando è «normalmente» malvagio – per la naturale imperfezione degli uomini – ma quando si presenta con il volto del bene. Questo gli permette di arrogarsi il diritto di perpetrare qualsiasi delitto, e nessuno può fermarlo, anzi esso si pone alla guida di una guerra senza quartiere per realizzare un regime migliore, che poi è tale solo per il fatto di «ripetere» se stesso. In nome di giustizia e verità si pretende di fare adepti per la causa e ci si autorizza a tutto, fino alla totale distruzione dell’avversario, che non è semplicemente un nemico di guerra, l’ hostis, ma è l’ inimicus, il nemico da odiare, il «male assoluto» da sradicare. Lo hanno fatto i regimi totalitari, ma anche oggi non si è perso il vizio.
Siamo certo lontani dalla spietatezza dei totalitarismi, ma la logica di fondo non è diversa: l’imposizione del bene.
Al bene, però, si può solo aderire: può essere scelto, non imposto. Il potere può limitare i danni, e lo deve; ma per farlo deve, in primo luogo, limitare se stesso. Oggi, invece, c’è una spietatezza che non si percepisce neppure come tale, in quanto rientra nella normalità. È ciò che Hannah Arendt ha chiamato la «banalità del male». Nel mondo c’è una diffusa tendenza all’appropriazione, e perciò anche all’accaparramento del potere. Da sempre il potere rappresenta una tentazione: il cupio dominandi è una dimensione antropologica, appartiene alla storia del mondo.
Chi possiede il potere, più che considerarlo un servizio, lo ritiene un privilegio. Per questo si tende a conquistarlo e, una volta acquisito, a non perderlo. Tramite esso, si cerca di avvantaggiarsi sugli altri. Per la medesima ragione non lo si cede facilmente, anzi si tende a difenderlo strenuamente. E questo non riguarda solo l’esercizio del potere politico, ma la gestione di qualsiasi tipo di potere. Ogni potere ha la tendenza a mantenersi e, per imporsi, a intimorire. Ora, si ha paura quando ci si sente esposti nella propria persona, nella propria famiglia, nei propri beni. Nella nostra società la lotta tra gli egoismi, l’offerta provocatoria di modelli sociali desiderati da molti ma concessi a pochi, l’invidia degli esclusi, tutto questo mette in circolo un sentimento diffuso di aggressività. Si tende quindi a tutelarsi, a difendere, anche legittimamente, quel che si ha. Ciò spinge gli individui a richiedere sempre più sicurezza e a pretenderla dal potere politico. Ma un potere chiamato a reprimere finisce per trarre sempre più autorità dalla logica della forza. Sempre, soprattutto quando si vive in situazioni d’emergenza, ciò che in primo luogo bisogna cercare di fare è individuare le cause. Lamentarsi è inutile. Nel contempo, però, è necessario adottare condotte alternative, anche con scelte unilaterali. In breve, contro la violenza e la prepotenza bisogna far sbocciare la «generosità», che, come insegna Spinoza, «è la cupidità con cui ciascuno si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di riunirli in amicizia». La generosità è una passione al pari dell’odio, è cupiditas, ma non è «passione triste»; è attiva, e non reattiva e perciò distruttiva: infatti, allontana le passioni malvagie (affectus malos declinat), respinge le offese (injurias propulsat).
Chi possiede il potere, più che considerarlo un servizio, lo ritiene un privilegio. Per questo si tende a conquistarlo e, una volta acquisito, a non perderlo. Tramite esso, si cerca di avvantaggiarsi sugli altri. Per la medesima ragione non lo si cede facilmente, anzi si tende a difenderlo strenuamente. E questo non riguarda solo l’esercizio del potere politico, ma la gestione di qualsiasi tipo di potere. Ogni potere ha la tendenza a mantenersi e, per imporsi, a intimorire. Ora, si ha paura quando ci si sente esposti nella propria persona, nella propria famiglia, nei propri beni. Nella nostra società la lotta tra gli egoismi, l’offerta provocatoria di modelli sociali desiderati da molti ma concessi a pochi, l’invidia degli esclusi, tutto questo mette in circolo un sentimento diffuso di aggressività. Si tende quindi a tutelarsi, a difendere, anche legittimamente, quel che si ha. Ciò spinge gli individui a richiedere sempre più sicurezza e a pretenderla dal potere politico. Ma un potere chiamato a reprimere finisce per trarre sempre più autorità dalla logica della forza. Sempre, soprattutto quando si vive in situazioni d’emergenza, ciò che in primo luogo bisogna cercare di fare è individuare le cause. Lamentarsi è inutile. Nel contempo, però, è necessario adottare condotte alternative, anche con scelte unilaterali. In breve, contro la violenza e la prepotenza bisogna far sbocciare la «generosità», che, come insegna Spinoza, «è la cupidità con cui ciascuno si sforza per il solo dettame della ragione di aiutare gli altri uomini e di riunirli in amicizia». La generosità è una passione al pari dell’odio, è cupiditas, ma non è «passione triste»; è attiva, e non reattiva e perciò distruttiva: infatti, allontana le passioni malvagie (affectus malos declinat), respinge le offese (injurias propulsat).
Per questo, al di là delle sconfitte, alla lunga vince e, per quel tanto che può, salva. Lo si è visto innanzi ai grandi crolli della storia.
«Avvenire» dell'8 aprile 2010
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