Sulla pagina di Berselli, lo scrittore che nessuno ha cancellato dopo la sua scomparsa, arrivano i messaggi di conoscenti e amici. E tutti continuano a parlare come fosse vivo. Perché cessare di esistere è ancora un tabù
di Massimiliano Parente
Cos’è la morte nella società moderna? Sociologicamente, secondo i famosi studi dello storico Philippe Ariès, per esempio, la morte è il più grande tabù occidentale, che ha preso il posto di quello sessuale. Per questo, nonostante le conoscenze scientifiche, le persone preferiscono pensare ancora che uno vada «in cielo», come fossimo nel Medioevo o nell’Islam, sebbene quel cielo sia un’invenzione consolatoria e si sia andati ben oltre nell’esplorazione fisica e astrofisica della terribilità dello spazio; oppure sperano di avere un’anima immortale, come se potesse esistere qualcosa di vivo senza corpo, senza metabolismo, senza Dna, pregando un’entità inconcepibile chiamata «Dio» o almeno qualche Ufo qua e là, qualche speranza volante per sottrarre il nostro destino all’ineluttabilità della seconda legge della termodinamica e all’idea di una fine.
Tuttavia Ariès non aveva previsto i social network, ecco perché la prima cosa che ho pensato quando ho saputo della morte di Edmondo Berselli è ciò che lo legava a me, e cioè il suo aver lanciato il mio ultimo romanzo, sull’Espresso, come «l’opera d’arte definitiva», scrivendone una lunga, appassionata recensione. Letterariamente dopo di me il diluvio, ero d’accordo con lui perfino io che l’ho sempre detto. Così non l’ho mai dimenticato, Edmondo. E però, dopo questa considerazione, mi sono ricordato che, pur non conoscendoci di persona, eravamo amici su Facebook, e quindi sono corso morbosamente sulla sua pagina, chiedendomi: sarà chiusa, sarà aperta, sarà in lutto? Non mi è mai morto nessuno su Facebook, prima o poi doveva capitarmi. Toccare un morto è terribile, lo sa chi ne ha toccato uno, ma entrare nella pagina Facebook di un morto appena morto anche peggio perché non è terribile per niente, entri come se niente fosse.
Infatti Edmondo è ancora tra i miei amici, e ne ha per l’esattezza 3548, di cui 49 in comune, di cui non so a questo punto se tutti vivi, eppure non sembra successo niente. È la tragedia della rimozione della tragedia, come già denunciava Friedrich Nietzsche, ciò che rende impossibile perfino il dionisiaco. Ecco perché la pagina di Edmondo è ancora lì, al suo posto, con la sua bella foto, non so se l’abbia lasciata aperta apposta o se non abbia fatto in tempo a disattivarla, come è più probabile, e di primo acchito sono stato tentato di lasciarci sopra le mie tristi condoglianze, ma le condoglianze a chi? Essendo il proprio account una protesi di se stessi, una propria emanazione virtuale, un diario vivente dentro cui puoi anche chattare, come posso fare le condoglianze a Edmondo per la sua stessa morte? Non è come scrivere un necrologio su un giornale, Facebook è un’altra cosa. Per trovare la soluzione mi sono messo a leggere i messaggi degli altri, i suoi lettori, i suoi amici virtuali, e scopro che Edmondo non è morto, come fossimo in Chiesa. Neppure «se ne è andato», altra formula della rimozione collettiva per non dire che si è morti. Va molto, piuttosto, il concetto del viaggio. Si comincia la bacheca da un certo Raul che scrive «Ciao Edmondo, buon viaggio», due righe più sotto anche Pino «buon viaggio, e porta con te la penna», Marco «Buon viaggio», Marta «Fai buon viaggio e pensaci», Luigi «Buon ritorno» (dove?), Sara «Buon viaggio, e facci pensare anche da lì», Bruno Wolf «Chissà se all’altro mondo saranno di più le belle promesse, i venerati maestri o i soliti stronzi», Antonio «Ciao Edmondo, grazie della tua arguzia, della tua intelligenza, buon viaggio», Sabrina «Ciao Edmondo, buon viaggio e buona scrittura ovunque sarai», Paolo «Ciao, buon viaggio», eccetera eccetera. I «buon viaggio» non si contano. Se non avessi letto la notizia della sua morte avrei pensato che Edmondo era semplicemente andato in ferie. La morte degli altri esorcizza la propria, si sa, e Facebook è una macchina perfetta, e se sei davanti al computer a scrivere «buon viaggio» sull’account di un altro significa che tu sei vivo e l’altro pure, non è successo niente. Tutto sommato, anzi tutto sottratto, la morte su Facebook non esiste, non può esistere: se per rompere davvero un’amicizia o un amore bisogna eliminarsi su Facebook, come si può morire davvero se continua a esistere il proprio account? Per paradosso si può morire da vivi disattivandoci anzitempo ma si può sopravvivere da morti non chiudendo l’account. Essere o non essere, Facebook o non Facebook, la triste verità è che della morte degli altri che non siano strettamente le persone care non frega nel profondo a nessuno. La morte è una notizia e una mestizia fugace. «Lo sai chi è morto?». «Ma noooo, mi dispiace». Il dispiacere dura un giorno, come i coccodrilli sui giornali, e non potrebbe essere altrimenti.
In ogni caso, non avendo la possibilità o il coraggio di scriversi il proprio necrologio, come fece Indro Montanelli, ognuno faccia quello che può, e tenete presente che il più geniale resta Marcel Duchamp, sulla cui tomba si legge che: «D’altronde sono sempre gli altri a morire». Infine, una domanda, visto che si avvicina l’estate: se la metafora del viaggio la si usa per la morte, cosa dite quando uno parte per le vacanze, per evitare che si tocchi scaramanticamente? Sarà per questo che non mi muovo mai? Perché nella mia immobilità da vivo nessuno può augurarmi niente, neppure la vita, che per uno scrittore è davvero mortale?
Tuttavia Ariès non aveva previsto i social network, ecco perché la prima cosa che ho pensato quando ho saputo della morte di Edmondo Berselli è ciò che lo legava a me, e cioè il suo aver lanciato il mio ultimo romanzo, sull’Espresso, come «l’opera d’arte definitiva», scrivendone una lunga, appassionata recensione. Letterariamente dopo di me il diluvio, ero d’accordo con lui perfino io che l’ho sempre detto. Così non l’ho mai dimenticato, Edmondo. E però, dopo questa considerazione, mi sono ricordato che, pur non conoscendoci di persona, eravamo amici su Facebook, e quindi sono corso morbosamente sulla sua pagina, chiedendomi: sarà chiusa, sarà aperta, sarà in lutto? Non mi è mai morto nessuno su Facebook, prima o poi doveva capitarmi. Toccare un morto è terribile, lo sa chi ne ha toccato uno, ma entrare nella pagina Facebook di un morto appena morto anche peggio perché non è terribile per niente, entri come se niente fosse.
Infatti Edmondo è ancora tra i miei amici, e ne ha per l’esattezza 3548, di cui 49 in comune, di cui non so a questo punto se tutti vivi, eppure non sembra successo niente. È la tragedia della rimozione della tragedia, come già denunciava Friedrich Nietzsche, ciò che rende impossibile perfino il dionisiaco. Ecco perché la pagina di Edmondo è ancora lì, al suo posto, con la sua bella foto, non so se l’abbia lasciata aperta apposta o se non abbia fatto in tempo a disattivarla, come è più probabile, e di primo acchito sono stato tentato di lasciarci sopra le mie tristi condoglianze, ma le condoglianze a chi? Essendo il proprio account una protesi di se stessi, una propria emanazione virtuale, un diario vivente dentro cui puoi anche chattare, come posso fare le condoglianze a Edmondo per la sua stessa morte? Non è come scrivere un necrologio su un giornale, Facebook è un’altra cosa. Per trovare la soluzione mi sono messo a leggere i messaggi degli altri, i suoi lettori, i suoi amici virtuali, e scopro che Edmondo non è morto, come fossimo in Chiesa. Neppure «se ne è andato», altra formula della rimozione collettiva per non dire che si è morti. Va molto, piuttosto, il concetto del viaggio. Si comincia la bacheca da un certo Raul che scrive «Ciao Edmondo, buon viaggio», due righe più sotto anche Pino «buon viaggio, e porta con te la penna», Marco «Buon viaggio», Marta «Fai buon viaggio e pensaci», Luigi «Buon ritorno» (dove?), Sara «Buon viaggio, e facci pensare anche da lì», Bruno Wolf «Chissà se all’altro mondo saranno di più le belle promesse, i venerati maestri o i soliti stronzi», Antonio «Ciao Edmondo, grazie della tua arguzia, della tua intelligenza, buon viaggio», Sabrina «Ciao Edmondo, buon viaggio e buona scrittura ovunque sarai», Paolo «Ciao, buon viaggio», eccetera eccetera. I «buon viaggio» non si contano. Se non avessi letto la notizia della sua morte avrei pensato che Edmondo era semplicemente andato in ferie. La morte degli altri esorcizza la propria, si sa, e Facebook è una macchina perfetta, e se sei davanti al computer a scrivere «buon viaggio» sull’account di un altro significa che tu sei vivo e l’altro pure, non è successo niente. Tutto sommato, anzi tutto sottratto, la morte su Facebook non esiste, non può esistere: se per rompere davvero un’amicizia o un amore bisogna eliminarsi su Facebook, come si può morire davvero se continua a esistere il proprio account? Per paradosso si può morire da vivi disattivandoci anzitempo ma si può sopravvivere da morti non chiudendo l’account. Essere o non essere, Facebook o non Facebook, la triste verità è che della morte degli altri che non siano strettamente le persone care non frega nel profondo a nessuno. La morte è una notizia e una mestizia fugace. «Lo sai chi è morto?». «Ma noooo, mi dispiace». Il dispiacere dura un giorno, come i coccodrilli sui giornali, e non potrebbe essere altrimenti.
In ogni caso, non avendo la possibilità o il coraggio di scriversi il proprio necrologio, come fece Indro Montanelli, ognuno faccia quello che può, e tenete presente che il più geniale resta Marcel Duchamp, sulla cui tomba si legge che: «D’altronde sono sempre gli altri a morire». Infine, una domanda, visto che si avvicina l’estate: se la metafora del viaggio la si usa per la morte, cosa dite quando uno parte per le vacanze, per evitare che si tocchi scaramanticamente? Sarà per questo che non mi muovo mai? Perché nella mia immobilità da vivo nessuno può augurarmi niente, neppure la vita, che per uno scrittore è davvero mortale?
«Il Giornale» del 13 aprile 2010
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