Il silenzio dei governi e dell'opinione pubblica
di Pierluigi Battista
Cuba, Cina e quei dissidenti lasciati soli
Ora sappiamo che c'è una ragione per sostenere la coraggiosa battaglia della cubana Yoani Sánchez, la blogger perseguitata dalla dittatura castrista. Ora sappiamo che, senza un sostegno duraturo, un dissidente può anche crollare, alzare bandiera bianca. Consegnarsi ai suoi carnefici, come l'avvocato cinese Gao Zhisheng, la bandiera del dissenso contro il regime di Pechino, che ha dichiarato di non farcela più. Gao Zhisheng ha dichiarato di non sopportare più il peso della solitudine, della mancanza degli affetti più elementari: lui che ha sopportato il carcere, l'ostracismo, la tortura. I dissidenti possono perdere. Ha perso la vita dopo uno sciopero della fame nel febbraio scorso a Cuba il detenuto Zapata, condannato con una pena esorbitante solo per aver manifestato la sua opposizione alla tirannia dinastica dei fratelli Castro. Perde la sua battaglia Gao, l'avvocato dei diritti civili calpestati in Cina. Non lo avevano piegato le scariche elettriche ai genitali, le sigarette spente sul corpo. Lo ha piegato, come ha rivelato Angelo Aquaro su Repubblica, la lontananza dei suoi bambini, la famiglia costretta a subire le angherie degli aguzzini per umiliare e ricattare il dissidente troppo pericoloso. Vogliono piegare all'Avana la dissidente Sánchez. Tempo fa gli sgherri del regime l'hanno malmenata. Il suo blog Generación Y è costretto a una vita clandestina. Lei non può lasciare l'isola, perché da quella prigione non si scappa. A Milano, in un incontro presso la Triennale, hanno potuto ascoltare solo la sua voce. Il regime la vuole isolata, dimenticata, abbandonata al suo destino, per poi costringerla a una resa umiliante. Non è detto che non ce la faccia, come dimostra il caso del dissidente cinese. Non è detto che la storia di Yoani Sánchez abbia un lieto fine. Non fosse per lei, l'opinione pubblica internazionale non saprebbe nulla di quel manipolo di coraggiosi che si sta lasciando morire di fame per protestare contro le detenzioni illegali, il carcere, la persecuzione. Mentre il mondo, come ha ammesso sul nostro giornale il ministro Frattini, è refrattario a ogni impegno, chiuso a ogni solidarietà, sordo a ogni richiamo sul rispetto dei diritti umani fondamentali. I dissidenti non andrebbero lasciati soli. Ma sono soli. I governi temporeggiano. L'opinione pubblica è indifferente. Le organizzazioni che dovrebbero tutelare i diritti umani hanno perso credibilità e mordente. Amnesty International ha commesso l'errore fatale di associare nelle proprie battaglie un capo talebano, già rinchiuso a Guantánamo, e coinvolto negli attentati dell'11 settembre. Hanno scoperto che l'inviato in Medio Oriente di Human Right Watch collezionava cimeli hitleriani e dialogava online con un nickname nazista mentre metteva sotto accusa Israele (e taceva sulle violazioni dei diritti umani nei Paesi islamici). Le Nazioni Unite, come al solito, offrono ogni giorno un saggio del loro migliore e più collaudato repertorio: il silenzio. La battaglia per i diritti civili non ha molto appeal. In Italia, davanti all'ambasciata in Iran, saranno state poche centinaia le persone che hanno manifestato contro le torture nelle carceri di Teheran e le impiccagioni in piazza per terrorizzare gli oppositori del regime di Ahmadinejad. È come se un senso di stanchezza, di rassegnazione, di disillusione avesse contagiato i governi, i media, le forze politiche, gli organismi internazionali. È l'atmosfera che ha gelato il povero Gao, quel senso di angoscioso isolamento che fiacca ogni combattività, sfibra la volontà degli spiriti più indomiti. Perciò l'abbandono dei dissidenti è una tragedia civile: perché certifica una sconfitta. È quasi un miracolo, in questo clima di acquiescenza globale, l'iniziativa, registrata e promossa dal Fatto quotidiano, di creare una rete internazionale di blogger per sostenere il coraggio di Yoani Sánchez. Finora hanno raccolto 9.000 firme, spedite all' ambasciata cubana. Ovviamente senza ricevere risposte ufficiali, ma alimentando attorno alla battaglia dei dissidenti un piccolo frammento d' attenzione, una luce accesa per chi affronta sfide mortali senza che il mondo dica una parola in suo soccorso. Una rete ancora artigianale e gracile, ma che può alimentare la volontà di non arrendersi. Un modo per non rendere la vita impossibile a chi, come il dissidente cinese che si è consegnato ai suoi aguzzini, sente la solitudine più tetra e scoraggiante di qualsiasi tortura. E se i governi democratici, a cominciare da quello italiano, prestassero un minimo ascolto a questa rete potrebbero allontanare un esito drammatico, lo spegnimento di tutte le voci dissidenti dentro le dittature. Una conclusione tragica, che dovrebbe provocare vergogna, e non imbarazzo e omertà.
«Corriere della Sera» del 10 aprile 2010
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