10 aprile 2010

C'era una volta l'informazione

Ermetismo, oscurità, idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio: sono il prodotto di rapporti sociali inconfessabili
di Giorgio Bocca
L'ermetismo dell'informazione va di pari passo con il falso elogio del popolo sovrano; più si dice che solo il popolo può scegliere chi ci governa e più l'arte del governo è incomprensibile, non dico al cittadino comune, ma alla stragrande maggioranza degli italiani che capisce una sola cosa, così evidente che è impossibile non capirla: lo Stato, come avverte il craxiano Rino Formica che di queste cose se ne intende, sta andando al collasso, il vuoto d'informazione chiara e comprensibile è diventato norma non trasgredibile.
Qualunque sia il tema di un'informazione di stampa o radio-televisiva lo scopo dichiarato, il risultato perseguito è di non informare, di essere oscuri e noiosi quanto basta perché la platea degli italiani cambi canale e si rifugi in qualche 'Verissimo' mignottificio e finalmente la gente capisca quel che si dice e si scrive: per far carriera bisogna andare a letto con i padroni. La logorrea ermetica copre gli spazi d'informazione come il petrolio degli spurghi industriali il fiume Lambro affluente del Po.
Quando entrai nel giornalismo una settantina di anni fa, che c'era ancora un re sul trono e non al Festival di Sanremo, i giornalisti migliori per sintesi e chiarezza erano i 'pastonisti', i corrispondenti da Roma dei grandi giornali, i Mattei, i Gorresio, i Negro che avendo a disposizione una colonnina su giornali allora a due fogli vi riassumevano i fatti politici ed economici della giornata in modo chiarissimo. Ed erano fatti spesso drammatici, decisivi per il Paese.
Oggi a leggere o ad ascoltare i resoconti di giornata, in un italiano bastardo zeppo di parole straniere, idiomatiche, gergali viene voglia di gridare basta, torniamo tutti a scuola, torniamo a parlare come si mangia. E mettiamo una cosa in chiaro: l'ermetismo, l'oscurità, gli idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio, sono un portato inevitabile di rapporti sociali inconfessabili.
Avete letto o ascoltato le registrazioni telefoniche dei nostri politici e affaristi? Si compongono di gerghi segreti, mafiosi, intercalati da scurrilità plebee, di affari sporchi e di 'vaffan', un linguaggio misto di banda del buco e di postribolo. Non è un caso che la scuola anglosassone d'informazione, i fatti distinti dalle opinioni, gli incipit essenziali i quando-come-dove, i dati anagrafici precisi, il tempo che faceva e anche il due più due fa quattro, siano sostituiti da tiritere senza fine, da confronti specialistici: tu giornalista che capisci i miei doppi sensi, le mie allusioni, quanto siamo bravi, quanto siamo nel giro che conta, alla faccia del popolo sovrano che per tenerlo buono basta dirgli che è il più intelligente e il più bravo del mondo.
Nella rete della comunicazione sovrabbondante, istantanea, poliglotta c'è una regola taciuta ma dominante: alla fine quelli che hanno la ricchezza e la conoscenza fanno i loro porci comodi, magari invidiati e votati dai poveracci.
Che informazione c'è stata sulle grandi truffe mentre si svolgevano? Che cosa ne abbiamo saputo in tempo debito delle truffe sulla banda larga, sui paradisi fiscali, sulle partite Iva evase, sulle grandi opere e sui grandi eventi, sulle opere del regime e del sultano? Nulla a tempo debito. Ora, a ladrocinio fatto, veniamo a sapere con larghezza di particolari osceni da chi è composta la nostra classe, non diciamo dirigente, ma affaristica. Da anarcoidi avidi, parenti dei 'pescicani' della prima guerra mondiale, di fronte ai quali il Mackie Messer brechtiano era un gentiluomo oxoniense.
Si parla della libertà di stampa quando stanno per soffocarla, quando televisioni e giornali rimbombano di voci incomprensibili, idiomatiche, specialistiche.
«L'Espresso» dell'8 aprile 2010

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