di Davide Rondoni
Uno dei segni dell’ideologismo è che ha poca e confusa memoria. E non solo sui tempi andati ma anche sul recente. E quando suona le sue trombette, pensa di suscitare uragani e invece suonano un po’ come pernacchie. Questo e altro è venuto da pensare leggendo certe prerecensioni entusiaste a un film di cui solo oggi c’è l’anteprima. È un film spagnolo dedicato alla splendida e tragica figura di Ipazia, la filosofa del 400 circa che fu uccisa da un gruppo di fanatici cristiani. Il film è stato salutato con clamore e sospironi.
Giornalisti e studiosi come Armando Massarenti su 'Il Sole 24 ore' e Luciano Canfora sul 'Corriere della Sera' hanno speso le loro migliori cartucce per confezionare a proposito della triste e confusa vicenda di Ipazia paragoni con l’epoca contemporanea, dove com’è evidente a tutti (secondo questi pensatori che vivono chissà dove) il libero pensiero è osteggiato da quei fanatici dei cristiani (sottinteso cattolici, in barba a qualsiasi distinzione storica tra oggi e quei secoli lontani).
Finalmente, secondo loro, si parla di Ipazia anche nella oscurata Italia. La ricostruzione nel film della vicenda, molto complessa dal punto di vista storico e filosofico tanto è che scrittori cristiani di quegli stessi secoli parlano con ammirazione della filosofa di cui non peraltro non ci è giunta l’opera, è stata dunque salutata con giubilo. E pur dovendo riconoscere nel film alcune evidenti 'forzature' antiscientifiche e antistoriche esse sono state – guarda un po’ – giudicate benevolmente da questi censori campioni dell’esattezza scientifica e storica. Il vizio ideologico di leggere in una vicenda così lontana nel tempo e molto complicata analogie con non si sa quali persecuzioni presenti mostra da sola le sue interne contraddizioni. Ma c’è un altro aspetto della mancanza di memoria che ferisce ulteriormente. È che entrambi gli intellettuali hanno dimenticato o fatto finta di dimenticare che un dramma teatrale dedicato a Ipazia fu scritto, e portato in scena con non poca importanza in Italia da una trentina di anni. Lo ha scritto un importante poeta, Mario Luzi.
Uno dei nostri massimi poeti, e un cristiano. Che non ebbe timore alcuno, in quel dramma fortissimo e affascinante, di mettere a nudo la tragedia che sempre incombe in ogni fanatismo. La tesi nemmeno velata sia di Canfora che di Massarenti è che il cristianesimo – come ogni fede – sia in se stesso una storia di fanatismo. Ma proprio l’episodio tragico e particolarmente cruento di Ipazia, non a caso maturato in ambienti orientali e in mezzo a certe complicazioni politiche, sta a mostrare proprio che l’esperienza più frequente della fede è lontana dalla degenerazione fanatica.
Quel triste episodio, insieme a non molti altri, mostra – pur tra chiaroscuri che l’indagine storica deve considerare per non diventare giornalismo politico – che il fanatismo è un male che fa notizia proprio quando perverte la fede. Forse né Canfora, né Massarenti hanno letto Luzi. Un poeta a volte può insegnare allo storico e al filosofo della scienza uno sguardo più vasto, più netto e meno viziato sulle vicende e la prospettiva con cui osservarle.
Una breve ricerca su Google avrebbe loro evitato la figura di far quelli che scoprono l’acqua calda, o che voglion far passare la storia per la dimostrazione di una tesi. E avrebbe loro impedito di far figurare ai loro lettori l’Italia come un paese in cui certi argomenti sono tabù. È una forma di scorrettezza intellettuale che si avvicina, come preludio e acidula guarnizione, al fanatismo sui cui pericoli proprio loro vorrebbero allertarci.
Giornalisti e studiosi come Armando Massarenti su 'Il Sole 24 ore' e Luciano Canfora sul 'Corriere della Sera' hanno speso le loro migliori cartucce per confezionare a proposito della triste e confusa vicenda di Ipazia paragoni con l’epoca contemporanea, dove com’è evidente a tutti (secondo questi pensatori che vivono chissà dove) il libero pensiero è osteggiato da quei fanatici dei cristiani (sottinteso cattolici, in barba a qualsiasi distinzione storica tra oggi e quei secoli lontani).
Finalmente, secondo loro, si parla di Ipazia anche nella oscurata Italia. La ricostruzione nel film della vicenda, molto complessa dal punto di vista storico e filosofico tanto è che scrittori cristiani di quegli stessi secoli parlano con ammirazione della filosofa di cui non peraltro non ci è giunta l’opera, è stata dunque salutata con giubilo. E pur dovendo riconoscere nel film alcune evidenti 'forzature' antiscientifiche e antistoriche esse sono state – guarda un po’ – giudicate benevolmente da questi censori campioni dell’esattezza scientifica e storica. Il vizio ideologico di leggere in una vicenda così lontana nel tempo e molto complicata analogie con non si sa quali persecuzioni presenti mostra da sola le sue interne contraddizioni. Ma c’è un altro aspetto della mancanza di memoria che ferisce ulteriormente. È che entrambi gli intellettuali hanno dimenticato o fatto finta di dimenticare che un dramma teatrale dedicato a Ipazia fu scritto, e portato in scena con non poca importanza in Italia da una trentina di anni. Lo ha scritto un importante poeta, Mario Luzi.
Uno dei nostri massimi poeti, e un cristiano. Che non ebbe timore alcuno, in quel dramma fortissimo e affascinante, di mettere a nudo la tragedia che sempre incombe in ogni fanatismo. La tesi nemmeno velata sia di Canfora che di Massarenti è che il cristianesimo – come ogni fede – sia in se stesso una storia di fanatismo. Ma proprio l’episodio tragico e particolarmente cruento di Ipazia, non a caso maturato in ambienti orientali e in mezzo a certe complicazioni politiche, sta a mostrare proprio che l’esperienza più frequente della fede è lontana dalla degenerazione fanatica.
Quel triste episodio, insieme a non molti altri, mostra – pur tra chiaroscuri che l’indagine storica deve considerare per non diventare giornalismo politico – che il fanatismo è un male che fa notizia proprio quando perverte la fede. Forse né Canfora, né Massarenti hanno letto Luzi. Un poeta a volte può insegnare allo storico e al filosofo della scienza uno sguardo più vasto, più netto e meno viziato sulle vicende e la prospettiva con cui osservarle.
Una breve ricerca su Google avrebbe loro evitato la figura di far quelli che scoprono l’acqua calda, o che voglion far passare la storia per la dimostrazione di una tesi. E avrebbe loro impedito di far figurare ai loro lettori l’Italia come un paese in cui certi argomenti sono tabù. È una forma di scorrettezza intellettuale che si avvicina, come preludio e acidula guarnizione, al fanatismo sui cui pericoli proprio loro vorrebbero allertarci.
«Avvenire» del 13 aprile 2010
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