Zygmunt Bauman, sociologo di fama mondiale, è stato uno dei protagonisti di «Parabole mediatiche», il convegno su Chiesa e comunicazione organizzato dalla Cei a Roma nel 2002. Il seguito di quell’appuntamento, «Testimoni digitali», si apre il 22 aprile. E Bauman torna a ragionare sul tema.
di Andrea Galli
Professore, molti vivono con frustrazione la distorsione o iper-semplificazione dei messaggi che la Chiesa cerca di comunicare attraverso i mass media.
«La frustrazione a cui lei si riferisce è ahimè diffusa. È forse un prezzo inevitabile da pagare per la possibilità di velocizzare il passaggio delle informazioni, che internet – l’autostrada dell’informazione – ha offerto. Tutte le autostrade tentano più persone dall’acquistare un veicolo e dall’usarlo sempre più spesso. Perciò tendono a diventare rapidamente sovraffollate (inducono e creano il proprio sovraffollamento, per così dire), il che mette in discussione la loro promessa originale: raggiungere una destinazione in modo spedito. Nel caso delle autostrade dell’informazione, tuttavia, c’è un’altra ragione per essere frustrati: la destinazione dei messaggi – i veicoli usati per sfrecciare su queste vie di comunicazione – è l’attenzione umana, che internet non può espandere, di cui non può aumentare la capacità di "digestione" dell’informazione! Al contrario, adattarsi alle condizioni create da internet rende l’attenzione mutevole, sfuggente, incapace di fermarsi e rimanere immobile a lungo. Un’attenzione che diventa allenata a navigare ma non a scandagliare, a comprendere. A fare zapping tra i canali ma non ad aspettare pazientemente che una trama riveli tutta la sua complessità. Per avere una chance di essere almeno notati, i messaggi tendono a essere abbreviati e semplificati, per trasmettere i propri contenuti prima che l’attenzione sfugga altrove. Una necessità che li rende inadatti per veicolare idee profonde che richiedono riflessione e contemplazione. Questo ha segnato dall’inizio la breve ma tumultuosa storia del "world wide web". Se si applica al mondo elettronico il principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto, l’informazione che più probabilmente intercetterà l’attenzione sarà sempre quella più immediata, superficiale e meno carica di contenuti. Il prezzo che paghiamo per una maggiore disponibilità di informazione è insomma il restringimento del suo carico di significato».
La postmodernità è associata alla dissoluzione delle comunità stabili e tradizionali. Il fenomeno dei social network può essere l’alba di una nuova era "comunitaria"? Dove le comunità sono radicalmente scelte, non più ereditate come dote sociale?
«L’immensa facilità di formazione delle comunità ci è arrivata nel pacco di spedizione assieme all’immensa facilità del loro smantellamento. Gli utenti di Facebook possono vantarsi di fare mezzo migliaio di amici in un giorno – più di quanti sia riuscito a farne io in 85 anni di vita. Ma con "amici" intendiamo lo stesso tipo di relazione? Le comunità di internet – chiamate più accuratamente network – sono mutevoli in modo eminente. E questo è precisamente il motivo per cui così tante persone – gettate nel contesto della modernità liquida – le accolgono con favore e le preferiscono alle comunità "vecchio stile": quelle che controllano il comportamento quotidiano dei propri membri, li tengono a briglia corta, rendono il cambiamento di modi di pensare o la decisione di andarsene se non impossibili, altamente costosi. La sostituzione di questo tipo di comunità coi network internettiani è stata salutata da molti come un enorme balzo in avanti nella storia della libertà individuale. Libertà di scegliere. E tuttavia anche questo comporta un grosso prezzo da pagare, che sempre più persone trovano sgradevole o insostenibile: la "sicurezza", che le vecchie comunità assicuravano e che i network non possono promettere. L’abbandono delle "vecchie" comunità contribuisce alla liberazione dell’individuo, ma l’individuo liberato può trovare impossibile, o almeno al di là delle proprie capacità, fare un uso appropriato della proclamata libertà. Rendere la libertà individuale autentica richiede un rafforzamento, non un indebolimento dei legami di solidarietà fra le persone. L’impegno a lungo termine che una forte solidarietà promuove può sembrare un bene a metà. Ma tale è anche l’assenza di impegno, che rende la solidarietà inaffidabile».
Il fenomeno dei blog, come possibilità di espressione per chi non ha voce, come fonti di controinformazione o come forza di pressione sulle istituzioni e i media ufficiali, si segnala anche nel mondo cattolico. Quali sono le sue potenzialità?
«La facilità con cui le persone possono contribuire al sovraffollamento del cyberspazio ha dato in effetti la possibilità a gruppi senza voce di farsi sentire. Ma ha dato loro anche la possibilità di essere "ascoltati", oltre che "sentiti"? E di fare qualcosa di reale se tale attenzione venisse loro data? Gli scettici potrebbero far notare che l’entrare in siffatto modo nell’arena pubblica resta illusorio. Con lo svantaggio, rispetto a prima, che coloro in cui ribolle il desiderio di agire possono finire per sentirsi in pace con la coscienza: qualcosa hanno fatto, no? Hanno assolto al proprio dovere di cittadini... quello che si poteva fare è stato fatto, non c’è molto altro. Mentre invece c’è, c’è molto altro! La verità è che è troppo presto per dare una valutazione attendibile delle ricadute sociali e politiche della rivoluzione internet. Resta da vedere se il risultato saranno più persone al potere o se, al contrario, internet renderà questo potere ancora più effimero di prima».
«La frustrazione a cui lei si riferisce è ahimè diffusa. È forse un prezzo inevitabile da pagare per la possibilità di velocizzare il passaggio delle informazioni, che internet – l’autostrada dell’informazione – ha offerto. Tutte le autostrade tentano più persone dall’acquistare un veicolo e dall’usarlo sempre più spesso. Perciò tendono a diventare rapidamente sovraffollate (inducono e creano il proprio sovraffollamento, per così dire), il che mette in discussione la loro promessa originale: raggiungere una destinazione in modo spedito. Nel caso delle autostrade dell’informazione, tuttavia, c’è un’altra ragione per essere frustrati: la destinazione dei messaggi – i veicoli usati per sfrecciare su queste vie di comunicazione – è l’attenzione umana, che internet non può espandere, di cui non può aumentare la capacità di "digestione" dell’informazione! Al contrario, adattarsi alle condizioni create da internet rende l’attenzione mutevole, sfuggente, incapace di fermarsi e rimanere immobile a lungo. Un’attenzione che diventa allenata a navigare ma non a scandagliare, a comprendere. A fare zapping tra i canali ma non ad aspettare pazientemente che una trama riveli tutta la sua complessità. Per avere una chance di essere almeno notati, i messaggi tendono a essere abbreviati e semplificati, per trasmettere i propri contenuti prima che l’attenzione sfugga altrove. Una necessità che li rende inadatti per veicolare idee profonde che richiedono riflessione e contemplazione. Questo ha segnato dall’inizio la breve ma tumultuosa storia del "world wide web". Se si applica al mondo elettronico il principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto, l’informazione che più probabilmente intercetterà l’attenzione sarà sempre quella più immediata, superficiale e meno carica di contenuti. Il prezzo che paghiamo per una maggiore disponibilità di informazione è insomma il restringimento del suo carico di significato».
La postmodernità è associata alla dissoluzione delle comunità stabili e tradizionali. Il fenomeno dei social network può essere l’alba di una nuova era "comunitaria"? Dove le comunità sono radicalmente scelte, non più ereditate come dote sociale?
«L’immensa facilità di formazione delle comunità ci è arrivata nel pacco di spedizione assieme all’immensa facilità del loro smantellamento. Gli utenti di Facebook possono vantarsi di fare mezzo migliaio di amici in un giorno – più di quanti sia riuscito a farne io in 85 anni di vita. Ma con "amici" intendiamo lo stesso tipo di relazione? Le comunità di internet – chiamate più accuratamente network – sono mutevoli in modo eminente. E questo è precisamente il motivo per cui così tante persone – gettate nel contesto della modernità liquida – le accolgono con favore e le preferiscono alle comunità "vecchio stile": quelle che controllano il comportamento quotidiano dei propri membri, li tengono a briglia corta, rendono il cambiamento di modi di pensare o la decisione di andarsene se non impossibili, altamente costosi. La sostituzione di questo tipo di comunità coi network internettiani è stata salutata da molti come un enorme balzo in avanti nella storia della libertà individuale. Libertà di scegliere. E tuttavia anche questo comporta un grosso prezzo da pagare, che sempre più persone trovano sgradevole o insostenibile: la "sicurezza", che le vecchie comunità assicuravano e che i network non possono promettere. L’abbandono delle "vecchie" comunità contribuisce alla liberazione dell’individuo, ma l’individuo liberato può trovare impossibile, o almeno al di là delle proprie capacità, fare un uso appropriato della proclamata libertà. Rendere la libertà individuale autentica richiede un rafforzamento, non un indebolimento dei legami di solidarietà fra le persone. L’impegno a lungo termine che una forte solidarietà promuove può sembrare un bene a metà. Ma tale è anche l’assenza di impegno, che rende la solidarietà inaffidabile».
Il fenomeno dei blog, come possibilità di espressione per chi non ha voce, come fonti di controinformazione o come forza di pressione sulle istituzioni e i media ufficiali, si segnala anche nel mondo cattolico. Quali sono le sue potenzialità?
«La facilità con cui le persone possono contribuire al sovraffollamento del cyberspazio ha dato in effetti la possibilità a gruppi senza voce di farsi sentire. Ma ha dato loro anche la possibilità di essere "ascoltati", oltre che "sentiti"? E di fare qualcosa di reale se tale attenzione venisse loro data? Gli scettici potrebbero far notare che l’entrare in siffatto modo nell’arena pubblica resta illusorio. Con lo svantaggio, rispetto a prima, che coloro in cui ribolle il desiderio di agire possono finire per sentirsi in pace con la coscienza: qualcosa hanno fatto, no? Hanno assolto al proprio dovere di cittadini... quello che si poteva fare è stato fatto, non c’è molto altro. Mentre invece c’è, c’è molto altro! La verità è che è troppo presto per dare una valutazione attendibile delle ricadute sociali e politiche della rivoluzione internet. Resta da vedere se il risultato saranno più persone al potere o se, al contrario, internet renderà questo potere ancora più effimero di prima».
«Avvenire» del 1 aprile 2010
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