La rivista ufficiale dei medici canadesi dice basta con l’uso di un termine sul quale grava una percezione popolare troppo negativa. E teorizza che se si vuole far accettare la morte provocata di un paziente basta spostare il significato dei concetti. Un 'trucco' che va conosciuto e smascherato
di Tommaso Scandroglio
Nell’editoriale datato 29 marzo e apparso sulla rivista scientifica Canadian Medical Association Journal, Ken Flegel e Paul C. Hébert affermano che la parola «eutanasia» non significa più nulla di preciso. Alcuni la intendono come un modo di uccidere un’altra persona, per altri è invece un atto di misericordia e compassione. A leggere l’articolo pare che, per i due medici in questione, eutanasia sia solo quella attiva, cioè un’azione positiva che mira alla soppressione di un soggetto malato.
Quella omissiva è derubricata addirittura ad «appropriata misura palliativa». Infatti il rifiuto di alimentazione e idratazione, della ventilazione artificiale e delle pratiche di rianimazione, a detta dei due ricercatori, rappresenta solo un atto che lenisce il dolore del paziente. Questo è certo, dato che poi il paziente muore.
Quella omissiva è derubricata addirittura ad «appropriata misura palliativa». Infatti il rifiuto di alimentazione e idratazione, della ventilazione artificiale e delle pratiche di rianimazione, a detta dei due ricercatori, rappresenta solo un atto che lenisce il dolore del paziente. Questo è certo, dato che poi il paziente muore.
L'editoriale è emblematico perché mette in evidenza una strategia molto usata dal fronte pro- choice, favorevole ad aborto ed eutanasia: cambiare il senso delle parole per cambiare la percezione della realtà. Non diciamo «omicidio del consenziente» o «aiuto al suicidio»: tutti comprenderebbero di che cosa si tratta e rifiuterebbero simili pratiche. Occorre trovare un’altra parola che suoni suadente e che celi dentro di sé la terribile realtà cui si riferisce. Il termine «eutanasia» non va più bene perché ormai molti l’associano all’omicidio. Allora da una parte occorre collegare «eutanasia» solo a quelle azioni che direttamente e attivamente procurano la morte di una persona (vedi iniezione letale). E dall’altra trovare una diversa espressione per indicare la morte di una persona a seguito di omissioni di cure già in atto o di mezzi di sostentamento vitale (acqua e cibo).
Piergiorgio Welby nel suo libro Lasciatemi morire scrive che «dobbiamo arrenderci all’evidenza, la parola 'eutanasia' non piace, anzi, stimola sentimenti di ripulsa». E allora propone «biodignità, ecomorire, finescosciente». Tali termini non hanno avuto alcuna fortuna, ma altre espressioni sì: dignità del morire, diritto a morire, lasciar morire, autodeterminazione nel fine vita. Tutti maquillage per nascondere un fatto brutale: l’uccisione di un essere umano, consenziente o meno, da parte di un altro.
I canadesi Flegel e Hébert mettono sul tavolo un’altra interessante questione: è eutanasia la somministrazione di un narcotico che allevia le sofferenze del malato ma che può provocarne la morte? Per rispondere dobbiamo fare ricorso al principio del duplice effetto che riguarda quegli atti in grado di produrre due effetti: uno positivo (come la diminuzione del dolore) e uno negativo (ad esempio, la morte del paziente). Affinché la somministrazione di un antidolorifico che può avere effetti letali sia lecita dal punto di vista morale e quindi non configuri un atto eutanasico occorre rispettare tutte le seguenti condizioni.
1. Stato di necessità: non ci devono essere altre soluzioni percorribili. Se esistesse un altro farmaco capace di sedare il dolore e privo di effetti letali, allora si dovrebbe usare quel preparato.
2. L’atto deve essere in sé moralmente buono o neutro: provocare la diminuzione del dolore è atto lecito.
3. Non si deve ricercare l’effetto malvagio direttamente, ma lo si deve sopportare come effetto non voluto. Non somministro oppiacei al fine di far morire il paziente, ma con l’intenzione di farlo soffrire di meno, tollerando l’effetto negativo della sua morte come conseguenza collaterale non ricercata.
4. L’effetto malvagio non deve essere ricercato nemmeno come mezzo, come effetto intermedio per provocare l’effetto buono.
Sbaglierebbe chi somministrasse morfina per far morire il paziente al fine di non farlo soffrire più (la morte come strumento di eliminazione del dolore).
5. Ci deve essere una proporzione tra effetto buono e effetto cattivo. La sedazione con effetto letale è praticabile solo quando il paziente è in fase terminale: il vedersi accorciato un tempo di vita che è già di per sé risicato è bilanciato dal guadagno avuto nel soffrire meno. Se manca una sola di queste condizioni è eutanasia.
Piergiorgio Welby nel suo libro Lasciatemi morire scrive che «dobbiamo arrenderci all’evidenza, la parola 'eutanasia' non piace, anzi, stimola sentimenti di ripulsa». E allora propone «biodignità, ecomorire, finescosciente». Tali termini non hanno avuto alcuna fortuna, ma altre espressioni sì: dignità del morire, diritto a morire, lasciar morire, autodeterminazione nel fine vita. Tutti maquillage per nascondere un fatto brutale: l’uccisione di un essere umano, consenziente o meno, da parte di un altro.
I canadesi Flegel e Hébert mettono sul tavolo un’altra interessante questione: è eutanasia la somministrazione di un narcotico che allevia le sofferenze del malato ma che può provocarne la morte? Per rispondere dobbiamo fare ricorso al principio del duplice effetto che riguarda quegli atti in grado di produrre due effetti: uno positivo (come la diminuzione del dolore) e uno negativo (ad esempio, la morte del paziente). Affinché la somministrazione di un antidolorifico che può avere effetti letali sia lecita dal punto di vista morale e quindi non configuri un atto eutanasico occorre rispettare tutte le seguenti condizioni.
1. Stato di necessità: non ci devono essere altre soluzioni percorribili. Se esistesse un altro farmaco capace di sedare il dolore e privo di effetti letali, allora si dovrebbe usare quel preparato.
2. L’atto deve essere in sé moralmente buono o neutro: provocare la diminuzione del dolore è atto lecito.
3. Non si deve ricercare l’effetto malvagio direttamente, ma lo si deve sopportare come effetto non voluto. Non somministro oppiacei al fine di far morire il paziente, ma con l’intenzione di farlo soffrire di meno, tollerando l’effetto negativo della sua morte come conseguenza collaterale non ricercata.
4. L’effetto malvagio non deve essere ricercato nemmeno come mezzo, come effetto intermedio per provocare l’effetto buono.
Sbaglierebbe chi somministrasse morfina per far morire il paziente al fine di non farlo soffrire più (la morte come strumento di eliminazione del dolore).
5. Ci deve essere una proporzione tra effetto buono e effetto cattivo. La sedazione con effetto letale è praticabile solo quando il paziente è in fase terminale: il vedersi accorciato un tempo di vita che è già di per sé risicato è bilanciato dal guadagno avuto nel soffrire meno. Se manca una sola di queste condizioni è eutanasia.
«Avvenire» del 1 aprile 2010
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