Europa in difficoltà
di Angelo Panebianco
Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento verso Est
Anche se non c'è alcun legame, ma solo una coincidenza temporale, fra il disastro aereo che decapitando in terra russa una parte importante della classe dirigente polacca ha risuscitato i fantasmi della Seconda guerra mondiale e le divisioni europee sulla questione del salvataggio della Grecia, i due episodi segnalano quanto gravi e complessi siano i problemi che attanagliano l'Europa. Non sono passati molti anni da quando gli europei, o molti di loro, parlavano dell'Europa come se si trattasse di un continente ormai al riparo dalle imboscate della storia. C'è stato un tempo in cui le elite europee credevano sinceramente che l'integrazione fosse una strada a senso unico e dalla quale l'Europa non sarebbe mai più tornata indietro. Molti pensavano che persino l'unificazione politica fosse a portata di mano, realizzabile nel giro di una o due generazioni. L'Unione godeva allora di grande prestigio (accresciuto dal successo della moneta unica) e la sua capacità di attrazione sui Paesi che non ne facevano parte era fortissima. Era l'epoca in cui si potevano immaginare ambiziose strategie e grandiosi piani di sviluppo (la strategia di Lisbona del 2000). In polemica con gli Stati Uniti, si favoleggiava di una Europa «potenza civile » che, con i suoi modi gentili e rassicuranti, avrebbe portato stabilità e benessere negli scacchieri caldi del Pianeta.
Poi le cose cominciarono a girare in un altro modo. Con l'allargamento, l'eterogeneità interna all'Unione aumentò, crebbero i contrasti e i rischi di paralisi dei processi decisionali europei. La guerra in Iraq, spaccando l'Europa in due fronti, uno a favore e uno contro gli Stati Uniti, rivelò poi l'esistenza di radicali divergenze nelle concezioni geopolitiche e nel modo in cui i governi europei definivano i rispettivi interessi nazionali (la cosa si è ripetuta durante la guerra russo- georgiana del 2008, quando proprio i polacchi assunsero le posizioni più intransigenti verso il rinascente imperialismo russo). Il colpo più duro fu la sconfitta della cosiddetta «costituzione europea » nel referendum francese del 2005. Proprio in uno dei Paesi-cardine dell'Unione l'elettorato sceglieva di dare un violento ceffone a quelle elite che avevano ritenuto i tempi maturi per una maggiore integrazione. La successiva adozione del trattato di Lisbona tamponò la ferita senza guarirla.
Guardiamo all'oggi. Possiamo scegliere una lettura immediata, più superficiale, delle attuali ragioni di crisi oppure una lettura che scavi alla ricerca delle forze più profonde. A una lettura immediata, molti problemi sembrano dipendere dagli atteggiamenti di una Germania emancipata dai complessi del passato e dalle linee guida dei suoi moderni fondatori, da Adenauer a Kohl. Nel caso della Grecia spetterà agli esperti valutare l'accordo raggiunto ieri, dopo un lungo travaglio, nell'Eurogruppo: la Germania, dopo essersi eretta a inflessibile ostacolo per una soluzione europea della crisi greca, ha scelto all'ultimo momento (anche tenendo conto dell'esposizione delle banche tedesche nella crisi) la via del compromesso. Importante per se stessa, l'evoluzione della crisi greca lo sarà anche, e soprattutto, per misurare le possibilità future di tenuta dell'eurozona. Quelle possibilità dipendono dalla continua capacità dei partner di convergere verso un interesse comune. Se si afferma la percezione di una incompatibilità fra gli interessi nazionali, la convergenza diventa ardua. Per ora si può solo osservare che rinunciando al suo tradizionale ruolo di leader dell'Europa, la Germania ha già mandato in pezzi l'asse franco-tedesco, l'antico motore dell'integrazione.
Ma si noti anche, cambiando luoghi e scenario, quanto la politica della nuova Germania condizioni la vicenda polacca. Le paure di Varsavia nei confronti dell’imperialismo russo, alimentate da una memoria che non può essere cancellata, sono esasperate dalla scelta tedesca di un matrimonio di interessi con la Russia di Putin e Medvedev. I Paesi dell'Est, Polonia in testa, sono sempre meno sicuri che l'Unione sia capace di dare loro adeguata protezione e una solidarietà non solo formale a fronte dei periodici ruggiti dell'orso russo. Se si scava a un livello più profondo, però, il problema non è più la politica della Germania. Il problema è che la storia pesa e, soprattutto quando viene negata, finisce per presentare il conto. Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento a Est. Bisognava sapere che quell'allargamento interessava Paesi che avevano riacquistato l'indipendenza nazionale dopo mezzo secolo di dominio sovietico e che le loro (comprensibilissime) preoccupazioni geopolitiche sarebbero state indirizzate a cercare protezione da un possibile, risorgente imperialismo russo.
Così come, più in generale, bisognava saper valutare il peso delle secolari divisioni dell'Europa. Non era possibile forzare troppo la mano nella direzione dell'unificazione politica senza provocare reazioni popolari che avrebbero messo a rischio persino il tantissimo di buono che l'integrazione economica e monetaria aveva dato all’Europa. Ci sono tempi e ritmi che vanno rispettati. Sempre guardando alle forze più profonde, è difficile non mettere in relazione l'attuale crisi dell'Unione con l'indebolimento del ruolo politico degli Stati Uniti. Agli europei, spesso, non fa comodo ricordarlo ma non ci sarebbe stato nessun processo di integrazione europea al di fuori del contesto di sicurezza garantito dopo la Seconda guerra mondiale, dagli Stati Uniti. Ciò suggerisce la possibilità che il futuro della comunità euro-atlantica e quello dell'integrazione europea siano fra loro più connessi di quanto di solito si creda e che il declino o il rilancio della prima possano coincidere con il declino o il rilancio della seconda.
Poi le cose cominciarono a girare in un altro modo. Con l'allargamento, l'eterogeneità interna all'Unione aumentò, crebbero i contrasti e i rischi di paralisi dei processi decisionali europei. La guerra in Iraq, spaccando l'Europa in due fronti, uno a favore e uno contro gli Stati Uniti, rivelò poi l'esistenza di radicali divergenze nelle concezioni geopolitiche e nel modo in cui i governi europei definivano i rispettivi interessi nazionali (la cosa si è ripetuta durante la guerra russo- georgiana del 2008, quando proprio i polacchi assunsero le posizioni più intransigenti verso il rinascente imperialismo russo). Il colpo più duro fu la sconfitta della cosiddetta «costituzione europea » nel referendum francese del 2005. Proprio in uno dei Paesi-cardine dell'Unione l'elettorato sceglieva di dare un violento ceffone a quelle elite che avevano ritenuto i tempi maturi per una maggiore integrazione. La successiva adozione del trattato di Lisbona tamponò la ferita senza guarirla.
Guardiamo all'oggi. Possiamo scegliere una lettura immediata, più superficiale, delle attuali ragioni di crisi oppure una lettura che scavi alla ricerca delle forze più profonde. A una lettura immediata, molti problemi sembrano dipendere dagli atteggiamenti di una Germania emancipata dai complessi del passato e dalle linee guida dei suoi moderni fondatori, da Adenauer a Kohl. Nel caso della Grecia spetterà agli esperti valutare l'accordo raggiunto ieri, dopo un lungo travaglio, nell'Eurogruppo: la Germania, dopo essersi eretta a inflessibile ostacolo per una soluzione europea della crisi greca, ha scelto all'ultimo momento (anche tenendo conto dell'esposizione delle banche tedesche nella crisi) la via del compromesso. Importante per se stessa, l'evoluzione della crisi greca lo sarà anche, e soprattutto, per misurare le possibilità future di tenuta dell'eurozona. Quelle possibilità dipendono dalla continua capacità dei partner di convergere verso un interesse comune. Se si afferma la percezione di una incompatibilità fra gli interessi nazionali, la convergenza diventa ardua. Per ora si può solo osservare che rinunciando al suo tradizionale ruolo di leader dell'Europa, la Germania ha già mandato in pezzi l'asse franco-tedesco, l'antico motore dell'integrazione.
Ma si noti anche, cambiando luoghi e scenario, quanto la politica della nuova Germania condizioni la vicenda polacca. Le paure di Varsavia nei confronti dell’imperialismo russo, alimentate da una memoria che non può essere cancellata, sono esasperate dalla scelta tedesca di un matrimonio di interessi con la Russia di Putin e Medvedev. I Paesi dell'Est, Polonia in testa, sono sempre meno sicuri che l'Unione sia capace di dare loro adeguata protezione e una solidarietà non solo formale a fronte dei periodici ruggiti dell'orso russo. Se si scava a un livello più profondo, però, il problema non è più la politica della Germania. Il problema è che la storia pesa e, soprattutto quando viene negata, finisce per presentare il conto. Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento a Est. Bisognava sapere che quell'allargamento interessava Paesi che avevano riacquistato l'indipendenza nazionale dopo mezzo secolo di dominio sovietico e che le loro (comprensibilissime) preoccupazioni geopolitiche sarebbero state indirizzate a cercare protezione da un possibile, risorgente imperialismo russo.
Così come, più in generale, bisognava saper valutare il peso delle secolari divisioni dell'Europa. Non era possibile forzare troppo la mano nella direzione dell'unificazione politica senza provocare reazioni popolari che avrebbero messo a rischio persino il tantissimo di buono che l'integrazione economica e monetaria aveva dato all’Europa. Ci sono tempi e ritmi che vanno rispettati. Sempre guardando alle forze più profonde, è difficile non mettere in relazione l'attuale crisi dell'Unione con l'indebolimento del ruolo politico degli Stati Uniti. Agli europei, spesso, non fa comodo ricordarlo ma non ci sarebbe stato nessun processo di integrazione europea al di fuori del contesto di sicurezza garantito dopo la Seconda guerra mondiale, dagli Stati Uniti. Ciò suggerisce la possibilità che il futuro della comunità euro-atlantica e quello dell'integrazione europea siano fra loro più connessi di quanto di solito si creda e che il declino o il rilancio della prima possano coincidere con il declino o il rilancio della seconda.
«Corriere della Sera» del 12 aprile 2010
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