di Vittorio Possenti
In sei profondi studi su libertà e moralità Ivaldo scandaglia i nuclei centrali della vita etica, includendo importanti esponenti del pensiero etico moderno: Fichte soprattutto, ma anche Lauth, Pareyson, Lévinas, Apel, Ricoeur.
L’intento però è valorizzare al massimo l’apporto kantiano, mostrando che la sua elaborazione non è consegnata al passato, ma apre prospettive attuali. Ciò si sviluppa mediante una rilettura dell’idea di ragion pratica, di legge morale e di libertà in lui. La ragion pratica determina la volontà grazie al porsi della legge morale come norma: dunque la ragion pratica è di per sé normativa e non soltanto procedurale, secondo la formulazione depotenziata dei neokantiani contemporanei come Habermas. Il punto forse più impegnativo concerne il nesso tra libertà e bene: «La libertà di arbitrio è il potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa». Questa frase di sant’Anselmo svela la natura profonda della volontà libera come volontà per il bene; è difficile dire però se Kant l’avesse presente. Nell’interpretazione che Ivaldo dà del pensiero kantiano, la persona diventa consapevole della sua capacità di volere liberamente in quanto ha dinanzi la legge morale col suo imperativo categorico: dunque «posso perché devo». Ma questo comando proviene dalla volontà stessa o da altrove? L’autore illustra come vada intesa l’autonomia kantiana di una volontà che è legge a se stessa, senza con ciò mettere da parte Dio come unico legislatore morale: «L’autonomia morale della volontà si oppone alla eteronomia, ma non alla teonomia, all’intenzione santa dell’ 'essere incondizionatamente buono' ». Su questo punto cruciale diverse sono state le interpretazioni, sino a quelle in cui l’autonomia kantiana è apertamente intesa in senso antiteonomo (si pensi ad H. Kelsen). Nel solco della grande meditazione sul «male radicale» cui è dedicato un capitolo, porrei l’interrogativo se nel sistema kantiano la domanda religiosa (che cosa mi è lecito sperare?) sia originaria o accada dopo che è avvenuta l’esperienza della legge morale e del suo rispetto. Suggestivo è l’inserimento di Kant e Fichte nella linea novecentesca dell’intersoggettività, pensata in primo luogo come relazione morale, ma senza elevare una barriera tra etica ed ontologia. La base di partenza per riconoscere l’intersoggettività è che l’imperativo categorico include l’essere con altri, cioè una comunità universale di esseri morali: in certo modo l’imperativo categorico è sociale, e questo mette in luce il carattere relazionale della persona e i possibili sviluppi pedagogici. La formazione del «cucciolo d’uomo » molto dipende dalla capacità iniziante di chi lo chiama, gli accorda fiducia e lo coinvolge.
L’intento però è valorizzare al massimo l’apporto kantiano, mostrando che la sua elaborazione non è consegnata al passato, ma apre prospettive attuali. Ciò si sviluppa mediante una rilettura dell’idea di ragion pratica, di legge morale e di libertà in lui. La ragion pratica determina la volontà grazie al porsi della legge morale come norma: dunque la ragion pratica è di per sé normativa e non soltanto procedurale, secondo la formulazione depotenziata dei neokantiani contemporanei come Habermas. Il punto forse più impegnativo concerne il nesso tra libertà e bene: «La libertà di arbitrio è il potere di serbare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa». Questa frase di sant’Anselmo svela la natura profonda della volontà libera come volontà per il bene; è difficile dire però se Kant l’avesse presente. Nell’interpretazione che Ivaldo dà del pensiero kantiano, la persona diventa consapevole della sua capacità di volere liberamente in quanto ha dinanzi la legge morale col suo imperativo categorico: dunque «posso perché devo». Ma questo comando proviene dalla volontà stessa o da altrove? L’autore illustra come vada intesa l’autonomia kantiana di una volontà che è legge a se stessa, senza con ciò mettere da parte Dio come unico legislatore morale: «L’autonomia morale della volontà si oppone alla eteronomia, ma non alla teonomia, all’intenzione santa dell’ 'essere incondizionatamente buono' ». Su questo punto cruciale diverse sono state le interpretazioni, sino a quelle in cui l’autonomia kantiana è apertamente intesa in senso antiteonomo (si pensi ad H. Kelsen). Nel solco della grande meditazione sul «male radicale» cui è dedicato un capitolo, porrei l’interrogativo se nel sistema kantiano la domanda religiosa (che cosa mi è lecito sperare?) sia originaria o accada dopo che è avvenuta l’esperienza della legge morale e del suo rispetto. Suggestivo è l’inserimento di Kant e Fichte nella linea novecentesca dell’intersoggettività, pensata in primo luogo come relazione morale, ma senza elevare una barriera tra etica ed ontologia. La base di partenza per riconoscere l’intersoggettività è che l’imperativo categorico include l’essere con altri, cioè una comunità universale di esseri morali: in certo modo l’imperativo categorico è sociale, e questo mette in luce il carattere relazionale della persona e i possibili sviluppi pedagogici. La formazione del «cucciolo d’uomo » molto dipende dalla capacità iniziante di chi lo chiama, gli accorda fiducia e lo coinvolge.
Marco Ivaldo, LIBERTÀ E MORALITÀ, A partire da Kant, Il Prato, pp. 236, € 15,00
«Avvenire» del 2 aprile marzo 2010
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