di Ugo Finetti
Da decenni in Italia si discute della politicizzazione della Corte costituzionale e della necessità di modificarne la nomina. La sua politicizzazione è andata infatti crescendo secondo tre aspetti - o stadi - da considerare separatamente anche se in concreto si intrecciano: lottizzazione, ideologizzazione, ruolo politico.
Cominciamo con il primo: il controllo partitico. Il timore di dar vita con la Corte costituzionale ad un organismo anomalo assillò sin dall’inizio l'Assemblea costituente. Il liberale Vittorio Emanuele Orlando non la voleva, anche il leader del Psi, Pietro Nenni, era sfavorevole, quello del Pci, Palmiro Togliatti, la irrideva ed il leader della Dc, Alcide De Gasperi, ne diffidò. La ricostruzione dello Stato democratico, tra il 1945 e il 1955, avvenne senza bisogno della Consulta.
Solo successivamente e per ragioni strumentali, come possibile strumento di condizionamento del governo, Togliatti cambiò idea e l’opposizione social-comunista negli anni Cinquanta prese a chiederne l’istituzione. L’accordo fu trovato dopo la caduta di De Gasperi nel clima di apertura a sinistra e di ritrovata «unità antifascista» nel 1955: fu uno dei prezzi per l’elezione di Giovanni Gronchi a Presidente della Repubblica con il voto del Pci e del Psi. Le condizioni per il suo decollo nel 1956 furono quindi legate ad una rigida spartizione tra maggioranza e opposizione. Spesso nel corso dei decenni la Corte è stata usata dai partiti come «premio di consolazione» per parlamentari non rieletti e per sistemare esponenti ad essi fedeli. Abbiamo quindi avuto ex segretari di partito ed ex ministri non solo come membri ma addirittura come Presidenti. Al tempo stesso la sua presidenza è diventata «trampolino di lancio» per poter poi assumere posizioni rilevanti, su designazione partitica, al vertice di enti statali, di gruppi parlamentari e per la nomina a ministri.
Nel corso degli anni Settanta dalla lottizzazione si è passati all’«impegno». Il compromesso storico tra Dc e Pci fu interpretato come ritorno all’unità antifascista del ’46-’47 quando fu definita la Carta. La Costituzione e la sua tutela divennero, nel prevalere di un’intesa catto-comunista, una sorta di «ideologia», nel senso di intendere l’antifascismo come valore attuale ed il fascismo come pericolo sempre incombente. L’assetto della Consulta si cristallizzò su un rapporto diretto tra sinistra democristiana e comunisti. Il cattocomunismo divenne maggioranza irreversibile nel segno di quel che il leader storico della sinistra cattolica, Giuseppe Dossetti, intendeva per «partito della Costituzione». Nel concreto i quindici giudici da allora si distinsero nel «levare le castagne dal fuoco» evitando il più possibile i referendum che infastidivano l’asse Dc-Pci. Ma il suo vertice non mancò di esternare sempre più un ruolo di «vigilanza antifascista». Ad esempio, nel giugno 1991, il Presidente della Corte, Ettore Gallo, dalla tribuna del Congresso dell’Associazione dei partigiani (l’Anpi), si scagliò con violenza contro Bettino Craxi. Il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, scrisse una lettera di solidarietà a Craxi («Craxi non è Hitler») ma i magistrati italiani al loro congresso, in quei giorni a Vasto, tributarono un applauso di sei minuti a Gallo in polemica con il Quirinale.
Con il passaggio dal proporzionale al maggioritario si realizzò il terzo e più grave uso partitico della Consulta. Con il maggioritario il catto-comunismo, il «partito della Costituzione» e l’«unità antifascista» finiscono in blocco da una parte. L’altra diventa il «pericolo per la democrazia». Per rendersi conto di come i membri di sinistra intendano la presenza nella Corte costituzionale è utile leggere i loro testi. In Princìpi e voti. La Corte costituzionale e la politica, scritto da Gustavo Zagrebelsky dopo aver lasciato nel 2004 la sua presidenza della Consulta alla quale era stato nominato nel 1995 da Scalfaro in accordo con il Pds, vediamo che il punto di partenza non è tanto il singolo testo da esaminare ma soprattutto il suo contesto politico e cioè la natura della maggioranza parlamentare. Se chi ha vinto le elezioni non è espressione del «partito della Costituzione» allora, teorizza il costituzionalista, tocca alla Corte svolgere una «funzione anti maggioritaria» e cioè contrastare l’esercizio del «principio maggioritario». La giustizia costituzionale, secondo il giudice di sinistra, «protegge la Repubblica» e quindi «limita la democrazia» (sic) in quanto se gli italiani hanno votato in modo sbagliato, la Corte «limita, per così dire, la quantità della democrazia per preservarne la qualità». La Corte costituzionale assume così il ruolo invocato negli anni ’50 dal leader della sinistra socialista, Lelio Basso, e cioè di «contropotere».
Cominciamo con il primo: il controllo partitico. Il timore di dar vita con la Corte costituzionale ad un organismo anomalo assillò sin dall’inizio l'Assemblea costituente. Il liberale Vittorio Emanuele Orlando non la voleva, anche il leader del Psi, Pietro Nenni, era sfavorevole, quello del Pci, Palmiro Togliatti, la irrideva ed il leader della Dc, Alcide De Gasperi, ne diffidò. La ricostruzione dello Stato democratico, tra il 1945 e il 1955, avvenne senza bisogno della Consulta.
Solo successivamente e per ragioni strumentali, come possibile strumento di condizionamento del governo, Togliatti cambiò idea e l’opposizione social-comunista negli anni Cinquanta prese a chiederne l’istituzione. L’accordo fu trovato dopo la caduta di De Gasperi nel clima di apertura a sinistra e di ritrovata «unità antifascista» nel 1955: fu uno dei prezzi per l’elezione di Giovanni Gronchi a Presidente della Repubblica con il voto del Pci e del Psi. Le condizioni per il suo decollo nel 1956 furono quindi legate ad una rigida spartizione tra maggioranza e opposizione. Spesso nel corso dei decenni la Corte è stata usata dai partiti come «premio di consolazione» per parlamentari non rieletti e per sistemare esponenti ad essi fedeli. Abbiamo quindi avuto ex segretari di partito ed ex ministri non solo come membri ma addirittura come Presidenti. Al tempo stesso la sua presidenza è diventata «trampolino di lancio» per poter poi assumere posizioni rilevanti, su designazione partitica, al vertice di enti statali, di gruppi parlamentari e per la nomina a ministri.
Nel corso degli anni Settanta dalla lottizzazione si è passati all’«impegno». Il compromesso storico tra Dc e Pci fu interpretato come ritorno all’unità antifascista del ’46-’47 quando fu definita la Carta. La Costituzione e la sua tutela divennero, nel prevalere di un’intesa catto-comunista, una sorta di «ideologia», nel senso di intendere l’antifascismo come valore attuale ed il fascismo come pericolo sempre incombente. L’assetto della Consulta si cristallizzò su un rapporto diretto tra sinistra democristiana e comunisti. Il cattocomunismo divenne maggioranza irreversibile nel segno di quel che il leader storico della sinistra cattolica, Giuseppe Dossetti, intendeva per «partito della Costituzione». Nel concreto i quindici giudici da allora si distinsero nel «levare le castagne dal fuoco» evitando il più possibile i referendum che infastidivano l’asse Dc-Pci. Ma il suo vertice non mancò di esternare sempre più un ruolo di «vigilanza antifascista». Ad esempio, nel giugno 1991, il Presidente della Corte, Ettore Gallo, dalla tribuna del Congresso dell’Associazione dei partigiani (l’Anpi), si scagliò con violenza contro Bettino Craxi. Il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, scrisse una lettera di solidarietà a Craxi («Craxi non è Hitler») ma i magistrati italiani al loro congresso, in quei giorni a Vasto, tributarono un applauso di sei minuti a Gallo in polemica con il Quirinale.
Con il passaggio dal proporzionale al maggioritario si realizzò il terzo e più grave uso partitico della Consulta. Con il maggioritario il catto-comunismo, il «partito della Costituzione» e l’«unità antifascista» finiscono in blocco da una parte. L’altra diventa il «pericolo per la democrazia». Per rendersi conto di come i membri di sinistra intendano la presenza nella Corte costituzionale è utile leggere i loro testi. In Princìpi e voti. La Corte costituzionale e la politica, scritto da Gustavo Zagrebelsky dopo aver lasciato nel 2004 la sua presidenza della Consulta alla quale era stato nominato nel 1995 da Scalfaro in accordo con il Pds, vediamo che il punto di partenza non è tanto il singolo testo da esaminare ma soprattutto il suo contesto politico e cioè la natura della maggioranza parlamentare. Se chi ha vinto le elezioni non è espressione del «partito della Costituzione» allora, teorizza il costituzionalista, tocca alla Corte svolgere una «funzione anti maggioritaria» e cioè contrastare l’esercizio del «principio maggioritario». La giustizia costituzionale, secondo il giudice di sinistra, «protegge la Repubblica» e quindi «limita la democrazia» (sic) in quanto se gli italiani hanno votato in modo sbagliato, la Corte «limita, per così dire, la quantità della democrazia per preservarne la qualità». La Corte costituzionale assume così il ruolo invocato negli anni ’50 dal leader della sinistra socialista, Lelio Basso, e cioè di «contropotere».
«Il Giornale» del 14 aprile 2010
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