Un libro di Souad Sbai
di Gaetano Quagliariello
Pubblichiamo di seguito la prefazione di Gaetano Quagliariello al libro di Suoad Sbai L’Inganno. Vittime del multiculturalismo, edito da Cantagalli
Souad Sbai scrive da una prospettiva illuminista. Si batte “per una politica dei lumi” e, contro l’oscurantismo dell’islam più estremista, si appella alla ragione. Individua nella libertà dell’uomo – e, nel caso in specie, ancor più della donna – la bussola che deve guidare l’azione di chi s’impegna in politica. Concepisce lo spazio pubblico come un ambito nel quale le sfere di autonomia delle persone siano costantemente destinate ad ampliarsi. E con questa dinamica, in fondo, identifica il progresso.
Per correttezza e per lealtà nei confronti di Souad, alla quale mi lega una profonda amicizia, dico subito che la mia prospettiva non coincide del tutto con la sua. Banalizzando potrei affermare che lei è più progressista di me e, se non si offende, che è più di sinistra.
A differenza sua, io non credo al primato della “ragion pura”. Ho persino l’ardire di ritenere che sia un errore – e un rischio – rivolgere lo sguardo sempre e solo verso il futuro. Credo, infatti, in una libertà temperata, regolata dalla responsabilità più che dal diritto. E che, per questo, sappia fare i conti con quella sedimentazione di saggezza che si condensa nella tradizione. Una libertà che sappia darsi dei limiti rispettando le identità che i costruttivisti del nuovo secolo, con l’aiuto di quanti hanno eletto il progresso tecnico-scientifico a religione, vorrebbero invece abrogare.
Insomma, mettiamola così: Souad è una liberale progressista sostenuta da un concetto di ragione che concede poco alle sensazioni, alle emozioni e ancor di meno alle convenzioni che io ritengo, invece, far parte del nostro Dna. Io, se proprio debbo classificarmi, mi definirei un liberale conservatore convinto che la ragione illuministica (quella dei lumi, per l’appunto) sia in grado di generare mostri. E, per questo, fautore di quel senso di responsabilità che si genera solo se si nutre rispetto per la propria origine, la propria identità, le convenzioni della propria comunità.
Non è una distanza da poco. Leggendo questo libro me ne sono reso conto ancor di più: pur essendo d’accordo sul “contesto”, tante volte mi è successo di segnare con un punto interrogativo questa o quella affermazione. Non ho dunque potuto fare a meno di chiedermi: perché due persone con un corredo d’idee almeno in parte diverso si trovano a militare dalla stessa parte? Perché fanno le stesse battaglie e condividono in buona parte gli stessi obbiettivi? Ci stiamo sbagliando noi - Suad e io - o c’è qualcosa di più profondo che giustifica questa vicinanza?
Una risposta soddisfacente, io credo, la si può trovare solo se consideriamo il contesto epocale nel quale da qualche decennio ci siamo infilati, e di cui non tutti hanno consapevolezza. Viviamo nella società globale, è una banalità. Ciò implica che tutto corre più veloce: le notizie, le transazioni economiche, le decisioni, i mutamenti culturali. E incomparabili rispetto al passato divengono anche i fenomeni governati dalle curve demografiche. Tra questi, ovviamente, innanzitutto l’immigrazione e l’integrazione.
Inutile, a tal proposito, provare a recuperare dati e soluzioni che ci giungono dalle esperienze novecentesche. Si finirebbe presto fuori strada. Perché allora il contesto era quello postcoloniale e le ricette venivano ancora influenzate dalle peculiari caratteristiche della stagione degli Imperi.
Oggi tutto è cambiato, per contesto geo-politico, dimensioni, proporzioni. E tra questi mutamenti ce n’è uno in particolare con il quale “i progressisti” faticano a fare i conti, al punto che, nella prospettiva di liberalizzare l’islam, essi sono portati a puntare in modo eccessivo sulle avanguardie intellettuali dei dissidenti e degli irregolari: persone eccezionali che spesso s’immolano in per-corsi eroici ma da cui non credo possa giungere “la soluzione” alla crisi di civiltà che stiamo attraversando.
Il mutamento più profondo – le cui avvisaglie si sono viste già partire dagli anni ottanta del secolo scorso – riguarda infatti quel processo di secolarizzazione della società in virtù del quale la religione si sarebbe dovuta presto ridurre a un incidente nella storia dell’umanità. gli illuministi d’autre fois avevano puntato fortemente sulla sua ineluttabilità. E invece il processo si è interrotto e addirittura invertito: a nord come a sud, a oriente ma anche a occidente.
Se si volessero immortalare i cambiamenti del costume, tra le immagini che hanno impressionato la pellicola degli ultimi decenni troveremmo senz’altro masse imponenti di fedeli inchinati verso la Mecca. Ma anche le adunate di giovani con i jeans e le chitarre in attesa della parola del Papa. Si potrebbe disquisire a lungo sulla profondità di questo fenomeno e sulla sua parentela con la vera fede. non di meno, però, nessuno potrà negare che esso attesti un profondo bisogno di senso, al quale la ragione da sola non sa dare soddisfazione.
A questo punto si pone un problema. Questo ritorno della religione preconizzato da andré Malraux (uno che aveva provato le inebrianti sensazioni della droga ideologica ed era riuscito a liberarsene), che si produce sotto i nostri occhi da quasi un quarantennio, è indiscusso e indiscutibile per quel che concerne il mondo non cristiano e in particolare in quello islamico. Anche se qualcuno lo volesse negare, dalla rivoluzione khomeinista in poi vi sono i cambiamenti di regime non meno che la diffusione dei veli e dei burqua ad attestarlo. Diviene invece sconveniente – politicamente scorretto, per dirla con più chiarezza – sostenerlo qui da noi. Chi osa farlo passa per retrogrado, servo dei preti, baciapile. E questo diffuso negazionismo rappresenta una delle prime cause di quella “contaminazione asimmetrica” che rischia di far smarrire allasocietà occidentale la sua tenuta, ancor prima che la sua identità. Si corre il rischio, insomma, di trasformarci tutti in una enorme olanda, con fenomeni di liberalizzazione estrema che convivono, nelle stesse strade, con un processo di islamizzazione per niente strisciante.
Le culture, infatti, non sono immobili. E, con grande scorno di tanti neo-positivisti, non evolvono neppure solo in linea retta verso sorti sempre più progressive. La storia si è incaricata d’insegnarcelo. Esse a differenza delle religioni – e in particolare di quelle rivelate – si modificano, s’influenzano a vicenda, si contaminano. Perché tutto ciò non accada a senso unico, però, vi è bisogno del rispetto, che è cosa ben più seria della tolleranza. rispetto verso gli altri ma rispetto anche per se stessi, per le proprie origini, per la propria identità.
Questa convinzione spinge a perseguire, più che un’evoluzione dell’islam per linee interne, una nuova consapevolezza dell’occidente. Consapevolezza della sua forza in senso politico-culturale, ancor più che in senso economico o geo-politico. Perché le grandi svolte della storia, con buona pace di tante vedove inconsolabili del marxismo, sono state sempre provocate da idee e ideali. Qui risiede forse un altro punto di distinzione rispetto alla prospettiva di Souad. Lei infatti, nel libro, si rifà spesso e volentieri all’individuo e alla sua sfera. Io preferisco senza tentennamenti parlare di persona. Perché l’identità, come le idee, sono qualcosa che appartiene al singolo. Ma diventano rilevanti nello spazio pubblico quando si fanno patrimonio condiviso dei corpi intermedi e da qui giungono a fecondare realtà comunitarie nelle quali la persona resti la misura imprescindibile.
Non c’è dunque da scandalizzarsi di fronte alle conseguenze del risveglio religioso del mondo islamico. Né è lecito rivolgersi a quel mondo sollecitando un dialogo, impossibile da accettare da loro come da noi qualora esso implichi una rivisitazione inprospettiva sincretistica di quei dogmi che per ogni religione rivelata non possono essere oggetto di confronto e tanto meno merce di baratto. Meglio, molto meglio puntare su un’altra prospettiva pretendendo che in occidente le religioni – tutte le religioni – non vengano considerate “affare privato” da dover fnascondere sotto l’obbligo di un velo di ipocrisia quando non proprio sotto il burqa di un multiculturalismo malinteso. Meglio, molto meglio battersi affinché le religioni siano chiamate a irrorare lo spazio pubblico regolato dai nostri costumi, dalle nostre Carte fondamentali, dalle nostre leggi, dai nostri tribunali. È altro – state tranquilli – rispetto al patriottismo costituzionale. È la rivendicazione di una identità che negli anni si è fatta Stato e che, per questo, cerca in tutti i modi di scongiurare che al riparo da occhi indiscreti e con la complicità del dogma illuminista della “religione come fatto privato” si compiano misfatti nei confronti della dignità della persona, soprattutto se essa è debole.
Questa è la grande contraddizione di un occidente che non crede più a niente: in nome di una tolleranza astratta e di un concetto di equivalenza delle culture che si decontestualizza fino a smarrire i suoi ancoraggi storici, si finisce per restare disarmati al cospetto di pratiche che negano l’eguaglianza, la dignità della donna, i diritti del minore. È come se i progressisti e coloro che, nonostante i tanti rovesci, continuano a credere nelle sorti progressive della storia, dicessero: segregate pure le donne musulmane, riducetele in schiavitù, fate subire loro l’abominio della poligamia, fate lavorare i bambini cinesi a Prato per dieci ore ma, per favore, fatelo “in privato”, lontano dai nostri occhi, e non ci mettete nella condizione di modificare le nostre visioni sull’identità, sul relativismo, sul multiculturalismo.
Troppo comodo. Chi è onesto, come lo è Souad, non può accettarlo. La sua fede nella ragione la porta a verificare se quel mondo che si vorrebbe governato dalla ragione astratta siaveramente il miglior mondo possibile. E se le risposta è no – come attestano le tante storie di donne narrate nelle pagine seguenti – ecco che la sua battaglia si avvicina a quella di un liberale conservatore. Souad è una illuminista politicamente scorretta. Con lei potrò litigare sul velo – se “teoricamente” sia giusto negarlo o meno – ma non su ciò che sia giusto fare per liberare dal giogo i più deboli, ovvero le vittime del politicamente corretto. oltre le propensioni ideali c’è l’onestà. Quella che ti porta a vedere le cose come sono e a comportarti di conseguenza.
Per correttezza e per lealtà nei confronti di Souad, alla quale mi lega una profonda amicizia, dico subito che la mia prospettiva non coincide del tutto con la sua. Banalizzando potrei affermare che lei è più progressista di me e, se non si offende, che è più di sinistra.
A differenza sua, io non credo al primato della “ragion pura”. Ho persino l’ardire di ritenere che sia un errore – e un rischio – rivolgere lo sguardo sempre e solo verso il futuro. Credo, infatti, in una libertà temperata, regolata dalla responsabilità più che dal diritto. E che, per questo, sappia fare i conti con quella sedimentazione di saggezza che si condensa nella tradizione. Una libertà che sappia darsi dei limiti rispettando le identità che i costruttivisti del nuovo secolo, con l’aiuto di quanti hanno eletto il progresso tecnico-scientifico a religione, vorrebbero invece abrogare.
Insomma, mettiamola così: Souad è una liberale progressista sostenuta da un concetto di ragione che concede poco alle sensazioni, alle emozioni e ancor di meno alle convenzioni che io ritengo, invece, far parte del nostro Dna. Io, se proprio debbo classificarmi, mi definirei un liberale conservatore convinto che la ragione illuministica (quella dei lumi, per l’appunto) sia in grado di generare mostri. E, per questo, fautore di quel senso di responsabilità che si genera solo se si nutre rispetto per la propria origine, la propria identità, le convenzioni della propria comunità.
Non è una distanza da poco. Leggendo questo libro me ne sono reso conto ancor di più: pur essendo d’accordo sul “contesto”, tante volte mi è successo di segnare con un punto interrogativo questa o quella affermazione. Non ho dunque potuto fare a meno di chiedermi: perché due persone con un corredo d’idee almeno in parte diverso si trovano a militare dalla stessa parte? Perché fanno le stesse battaglie e condividono in buona parte gli stessi obbiettivi? Ci stiamo sbagliando noi - Suad e io - o c’è qualcosa di più profondo che giustifica questa vicinanza?
Una risposta soddisfacente, io credo, la si può trovare solo se consideriamo il contesto epocale nel quale da qualche decennio ci siamo infilati, e di cui non tutti hanno consapevolezza. Viviamo nella società globale, è una banalità. Ciò implica che tutto corre più veloce: le notizie, le transazioni economiche, le decisioni, i mutamenti culturali. E incomparabili rispetto al passato divengono anche i fenomeni governati dalle curve demografiche. Tra questi, ovviamente, innanzitutto l’immigrazione e l’integrazione.
Inutile, a tal proposito, provare a recuperare dati e soluzioni che ci giungono dalle esperienze novecentesche. Si finirebbe presto fuori strada. Perché allora il contesto era quello postcoloniale e le ricette venivano ancora influenzate dalle peculiari caratteristiche della stagione degli Imperi.
Oggi tutto è cambiato, per contesto geo-politico, dimensioni, proporzioni. E tra questi mutamenti ce n’è uno in particolare con il quale “i progressisti” faticano a fare i conti, al punto che, nella prospettiva di liberalizzare l’islam, essi sono portati a puntare in modo eccessivo sulle avanguardie intellettuali dei dissidenti e degli irregolari: persone eccezionali che spesso s’immolano in per-corsi eroici ma da cui non credo possa giungere “la soluzione” alla crisi di civiltà che stiamo attraversando.
Il mutamento più profondo – le cui avvisaglie si sono viste già partire dagli anni ottanta del secolo scorso – riguarda infatti quel processo di secolarizzazione della società in virtù del quale la religione si sarebbe dovuta presto ridurre a un incidente nella storia dell’umanità. gli illuministi d’autre fois avevano puntato fortemente sulla sua ineluttabilità. E invece il processo si è interrotto e addirittura invertito: a nord come a sud, a oriente ma anche a occidente.
Se si volessero immortalare i cambiamenti del costume, tra le immagini che hanno impressionato la pellicola degli ultimi decenni troveremmo senz’altro masse imponenti di fedeli inchinati verso la Mecca. Ma anche le adunate di giovani con i jeans e le chitarre in attesa della parola del Papa. Si potrebbe disquisire a lungo sulla profondità di questo fenomeno e sulla sua parentela con la vera fede. non di meno, però, nessuno potrà negare che esso attesti un profondo bisogno di senso, al quale la ragione da sola non sa dare soddisfazione.
A questo punto si pone un problema. Questo ritorno della religione preconizzato da andré Malraux (uno che aveva provato le inebrianti sensazioni della droga ideologica ed era riuscito a liberarsene), che si produce sotto i nostri occhi da quasi un quarantennio, è indiscusso e indiscutibile per quel che concerne il mondo non cristiano e in particolare in quello islamico. Anche se qualcuno lo volesse negare, dalla rivoluzione khomeinista in poi vi sono i cambiamenti di regime non meno che la diffusione dei veli e dei burqua ad attestarlo. Diviene invece sconveniente – politicamente scorretto, per dirla con più chiarezza – sostenerlo qui da noi. Chi osa farlo passa per retrogrado, servo dei preti, baciapile. E questo diffuso negazionismo rappresenta una delle prime cause di quella “contaminazione asimmetrica” che rischia di far smarrire allasocietà occidentale la sua tenuta, ancor prima che la sua identità. Si corre il rischio, insomma, di trasformarci tutti in una enorme olanda, con fenomeni di liberalizzazione estrema che convivono, nelle stesse strade, con un processo di islamizzazione per niente strisciante.
Le culture, infatti, non sono immobili. E, con grande scorno di tanti neo-positivisti, non evolvono neppure solo in linea retta verso sorti sempre più progressive. La storia si è incaricata d’insegnarcelo. Esse a differenza delle religioni – e in particolare di quelle rivelate – si modificano, s’influenzano a vicenda, si contaminano. Perché tutto ciò non accada a senso unico, però, vi è bisogno del rispetto, che è cosa ben più seria della tolleranza. rispetto verso gli altri ma rispetto anche per se stessi, per le proprie origini, per la propria identità.
Questa convinzione spinge a perseguire, più che un’evoluzione dell’islam per linee interne, una nuova consapevolezza dell’occidente. Consapevolezza della sua forza in senso politico-culturale, ancor più che in senso economico o geo-politico. Perché le grandi svolte della storia, con buona pace di tante vedove inconsolabili del marxismo, sono state sempre provocate da idee e ideali. Qui risiede forse un altro punto di distinzione rispetto alla prospettiva di Souad. Lei infatti, nel libro, si rifà spesso e volentieri all’individuo e alla sua sfera. Io preferisco senza tentennamenti parlare di persona. Perché l’identità, come le idee, sono qualcosa che appartiene al singolo. Ma diventano rilevanti nello spazio pubblico quando si fanno patrimonio condiviso dei corpi intermedi e da qui giungono a fecondare realtà comunitarie nelle quali la persona resti la misura imprescindibile.
Non c’è dunque da scandalizzarsi di fronte alle conseguenze del risveglio religioso del mondo islamico. Né è lecito rivolgersi a quel mondo sollecitando un dialogo, impossibile da accettare da loro come da noi qualora esso implichi una rivisitazione inprospettiva sincretistica di quei dogmi che per ogni religione rivelata non possono essere oggetto di confronto e tanto meno merce di baratto. Meglio, molto meglio puntare su un’altra prospettiva pretendendo che in occidente le religioni – tutte le religioni – non vengano considerate “affare privato” da dover fnascondere sotto l’obbligo di un velo di ipocrisia quando non proprio sotto il burqa di un multiculturalismo malinteso. Meglio, molto meglio battersi affinché le religioni siano chiamate a irrorare lo spazio pubblico regolato dai nostri costumi, dalle nostre Carte fondamentali, dalle nostre leggi, dai nostri tribunali. È altro – state tranquilli – rispetto al patriottismo costituzionale. È la rivendicazione di una identità che negli anni si è fatta Stato e che, per questo, cerca in tutti i modi di scongiurare che al riparo da occhi indiscreti e con la complicità del dogma illuminista della “religione come fatto privato” si compiano misfatti nei confronti della dignità della persona, soprattutto se essa è debole.
Questa è la grande contraddizione di un occidente che non crede più a niente: in nome di una tolleranza astratta e di un concetto di equivalenza delle culture che si decontestualizza fino a smarrire i suoi ancoraggi storici, si finisce per restare disarmati al cospetto di pratiche che negano l’eguaglianza, la dignità della donna, i diritti del minore. È come se i progressisti e coloro che, nonostante i tanti rovesci, continuano a credere nelle sorti progressive della storia, dicessero: segregate pure le donne musulmane, riducetele in schiavitù, fate subire loro l’abominio della poligamia, fate lavorare i bambini cinesi a Prato per dieci ore ma, per favore, fatelo “in privato”, lontano dai nostri occhi, e non ci mettete nella condizione di modificare le nostre visioni sull’identità, sul relativismo, sul multiculturalismo.
Troppo comodo. Chi è onesto, come lo è Souad, non può accettarlo. La sua fede nella ragione la porta a verificare se quel mondo che si vorrebbe governato dalla ragione astratta siaveramente il miglior mondo possibile. E se le risposta è no – come attestano le tante storie di donne narrate nelle pagine seguenti – ecco che la sua battaglia si avvicina a quella di un liberale conservatore. Souad è una illuminista politicamente scorretta. Con lei potrò litigare sul velo – se “teoricamente” sia giusto negarlo o meno – ma non su ciò che sia giusto fare per liberare dal giogo i più deboli, ovvero le vittime del politicamente corretto. oltre le propensioni ideali c’è l’onestà. Quella che ti porta a vedere le cose come sono e a comportarti di conseguenza.
«L'Occidentale» del 4 aprile 2010
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