Il filosofo Jean-Michel Besnier dipinge in questa intervista un affresco della società tecnologica dove le macchine «entrano» nel corpo umano e lo mutano in una realtà ibrida
di Corinne Soulay
Nel suo ultimo libro, Demain les posthumains (edito in Francia da Hachette), il filosofo Jean-Michel Besnier, specialista in nuove tecnologie, sostiene che le utopie narrate dalla letteratura di fantascienza sono oggi ipotizzabili, e alcune già attuali. La realizzazione di protesi e stimolatori, la manipolazione del Dna, i progressi nell’ambito delle biotecnologie spingono sempre più avanti i limiti dell’umano, rendendo possibili i fantasmi di un uomo 'aggiustato', e persino 'aumentato'. Besnier evoca questo sconvolgimento che ci spinge a ridefinire l’umano e a mettere in campo nuovi valori.
Secondo lei starebbe nascendo una nuova specie di uomo. Che cosa glielo fa pensare?
«Il caso di Oscar Pistorius, a mio parere, è rivelatore. Quest’atleta sudafricano, amputato sopra il ginocchio, ha conquistato la medaglia d’oro nei 400 metri ai giochi Paraolimpici di Atene del 2004. Nel 2008 voleva gareggiare con gli atleti 'normali'. Il comitato olimpico, imbarazzato, in un primo momento ha respinto la sua richiesta. Motivo: con le protesi in fibra di carbonio, Oscar Pistorius sarebbe stato favorito. La tecnica aveva trasformato un uomo 'svantaggiato' in uno 'aumentato'! Le scoperte scientifiche degli ultimi anni ci offrono prospettive straordinarie. Ormai possiamo intervenire direttamente sul funzionamento del cervello. Giocando su neurotrasmettitori come la serotonina – usata nella cura della depressione – si riesce a modificare l’umore. Un paraplegico oggi è in grado di manovrare la sua sedia a rotelle unicamente con il pensiero. E in un futuro prossimo, grazie a innesti elettronici, avremo gli strumenti per riparare un cervello leso dal morbo di Alzheimer o di Parkinson».
Restiamo però lontani dai cyborg della fantascienza, metà uomo e metà macchina…
«Non tanto. Il pace-maker è stato il primo elemento visibile di tale trasformazione. Ma, in seguito, sono stati realizzati dispositivi miniaturizzati sempre più performanti e diversificati. Per il momento tali invenzioni sono destinate ad 'aggiustare' l’umano, ma è immaginabile che in futuro verranno utilizzate per dopare le prestazioni. Dal momento che disponiamo di tecniche per correggere le debolezze del cervello, perché non usarle per ingigantire la memoria, ad esempio, o restituire la vista ai ciechi? Sappiamo farlo attraverso manipolazioni sulla retina. Non è insensato pensare che riusciremo a dare all’uomo la capacità di vedere di notte. L’industria militare è molto interessata a questo tipo di ricerche… Ebbene, se ci dotiamo di protesi all’infinito, quale parte d’umanità ci resterà?».
La morte sarà destinata a sparire?
«In qualche modo. Per la precisione, stiamo sviluppando tecnologie ritenute in grado di farci smettere di soffrire e di morire. E persino di nascere! Siamo alla vigilia di poter tecnicamente 'fabbricare' l’uomo senza l’intervento di un atto sessuale, grazie alla clonazione. Presto, con la messa a punto dell’utero artificiale, saremo persino in grado di considerare l’ipotesi di fare a meno della gravidanza. Verremo inoltre a capo delle malattie, grazie a migliaia di nanorobot che percorreranno il nostro organismo segnalando gli agenti patogeni, aggiustando e curando i tumori in situ, correggendo gli errori del Dna o eliminando le tossine… Infine, sarà indubbiamente possibile tradurre in forma elettronica la nostra architettura neuronale, ossia il contenuto del cervello. Tali informazioni potranno essere telecaricate su materiali incorruttibili – pulci di silicio – o trasferite in un robot… o in un altro corpo! Se si ritiene che la vita si limiti alla sopravvivenza di tale contenuto, la morte potrebbe sparire».
Vuol dire che si riduce pericolosamente la differenza tra uomo e robot?
«Reagiamo già come robot. Semplifichiamo i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare e il linguaggio per interagire con le macchine. Quando voglio contattare telefonicamente un’azienda di servizi e una voce mi ordina di 'premere asterisco', di 'dire sì o no', non ho scelta. Se reagisco da umano, dando prova di umorismo o di poesia, non accedo al servizio! Lo stesso quando ritiro i biglietti del treno alla macchinetta self-service…».
Le tecnologie ci spingono a perdere le nostre competenze?
«Noi 'esternalizziamo' sempre di più la nostra memoria. A forza di registrare i numeri di telefono sul cellulare, non sappiamo più memorizzarli. E sempre più spesso rinunciamo alla scrittura per il computer. Ma i supporti virtuali sono caduchi: la versione di un programma di scrittura viene sostituita quasi ogni anno. Se non aggiorniamo, non possiamo più leggere i vecchi dati archiviati. Si pone il problema della perennità della memoria umana, che viene così resa particolarmente fragile. Lo stesso vale per le nostre mani. Grazie a tecnologie sempre più performanti, le usiamo sempre meno. Eppure è stato l’atto di presa a permetterci, migliaia di anni fa, di fabbricare utensili. Altra specificità umana che tende a sparire».
Da parte loro, le macchine diventerebbero sempre più umane?
«Per far fronte all’invecchiamento della popolazione e prendersi cura degli anziani, giapponesi e coreani costruiscono robot androidi, dotati di corpo e rivestiti in silicone per imitare la pelle. Gli scienziati sono al lavoro anche su macchine in grado di imitare alla perfezione i comportamenti umani: possono parlare, riconoscere una voce e manifestare un’emozione in risposta agli stimoli ».
L’uomo non resta comunque padrone della situazione, dal momento che è lui a comandare la macchina?
«Non è più così semplice, poiché oggi costruiamo robot capaci di reagire in maniera autonoma. È il caso di Spirit, inviato su Marte, che sa adattarsi alle ostilità ambientali. Incredibilmente, da qualche tempo, sembra dare segni di disobbedienza e non risponde più agli ordini della Nasa: è possibile che abbia sviluppato un comportamento che ci sfugge. Quanto ai nanorobot – che saranno presto utilizzati in microchirurgia – finora avevano bisogno di energia fornita dall’esterno per 'sopravvivere' nell’organismo. Ma si è scoperto che è possibile ricaricarli grazie ai movimento del colon. Risultato: questi minuscoli dispositivi imbottiti di ricettori diventerebbero completamente autonomi e, in definitiva, incontrollabili».
L’evoluzione verso un essere 'postumano' è inevitabile?
«No, tranquillizziamoci. Ma è necessaria una massiccia presa di coscienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della nascita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prerequisito per salvare l’umanità. In questo, le odierne filosofie, le spiritualità e le religioni hanno un ruolo da svolgere».
Concretamente, quali soluzioni abbiamo?
«Bisogna dare importanza ai pareri dei nostri comitati etici. Sono imprescindibili se vogliamo riuscire a posizionare abilmente il cursore tra quanto rientra nell’'aggiustare' l’umano' e quanto invece nell’'aumentarlo'. Anche sul piano individuale, si tratta di coltivare quei comportamenti che fanno di noi degli esseri umani. L’umorismo, la creatività, l’ironia. Tutte cose bandite dal 'politicamente corretto' e dalla standardizzazione. Mozart o Proust non possono essere ridotti a semplici sistemi di neuroni! Seguiamo il loro esempio. Possiamo inoltre rifiutare la robotizzazione che ci circonda, costringendoci a fare la fila allo sportello della banca invece di preferire il bancomat. Il problema è che, in certe agenzie, l’impiegato allo sportello non c’è più. Alla fine, la decisione di regolare meglio il movimento verso il post-umano deve essere conseguenza di una vera scelta di società, di una volontà politica forte».
Secondo lei starebbe nascendo una nuova specie di uomo. Che cosa glielo fa pensare?
«Il caso di Oscar Pistorius, a mio parere, è rivelatore. Quest’atleta sudafricano, amputato sopra il ginocchio, ha conquistato la medaglia d’oro nei 400 metri ai giochi Paraolimpici di Atene del 2004. Nel 2008 voleva gareggiare con gli atleti 'normali'. Il comitato olimpico, imbarazzato, in un primo momento ha respinto la sua richiesta. Motivo: con le protesi in fibra di carbonio, Oscar Pistorius sarebbe stato favorito. La tecnica aveva trasformato un uomo 'svantaggiato' in uno 'aumentato'! Le scoperte scientifiche degli ultimi anni ci offrono prospettive straordinarie. Ormai possiamo intervenire direttamente sul funzionamento del cervello. Giocando su neurotrasmettitori come la serotonina – usata nella cura della depressione – si riesce a modificare l’umore. Un paraplegico oggi è in grado di manovrare la sua sedia a rotelle unicamente con il pensiero. E in un futuro prossimo, grazie a innesti elettronici, avremo gli strumenti per riparare un cervello leso dal morbo di Alzheimer o di Parkinson».
Restiamo però lontani dai cyborg della fantascienza, metà uomo e metà macchina…
«Non tanto. Il pace-maker è stato il primo elemento visibile di tale trasformazione. Ma, in seguito, sono stati realizzati dispositivi miniaturizzati sempre più performanti e diversificati. Per il momento tali invenzioni sono destinate ad 'aggiustare' l’umano, ma è immaginabile che in futuro verranno utilizzate per dopare le prestazioni. Dal momento che disponiamo di tecniche per correggere le debolezze del cervello, perché non usarle per ingigantire la memoria, ad esempio, o restituire la vista ai ciechi? Sappiamo farlo attraverso manipolazioni sulla retina. Non è insensato pensare che riusciremo a dare all’uomo la capacità di vedere di notte. L’industria militare è molto interessata a questo tipo di ricerche… Ebbene, se ci dotiamo di protesi all’infinito, quale parte d’umanità ci resterà?».
La morte sarà destinata a sparire?
«In qualche modo. Per la precisione, stiamo sviluppando tecnologie ritenute in grado di farci smettere di soffrire e di morire. E persino di nascere! Siamo alla vigilia di poter tecnicamente 'fabbricare' l’uomo senza l’intervento di un atto sessuale, grazie alla clonazione. Presto, con la messa a punto dell’utero artificiale, saremo persino in grado di considerare l’ipotesi di fare a meno della gravidanza. Verremo inoltre a capo delle malattie, grazie a migliaia di nanorobot che percorreranno il nostro organismo segnalando gli agenti patogeni, aggiustando e curando i tumori in situ, correggendo gli errori del Dna o eliminando le tossine… Infine, sarà indubbiamente possibile tradurre in forma elettronica la nostra architettura neuronale, ossia il contenuto del cervello. Tali informazioni potranno essere telecaricate su materiali incorruttibili – pulci di silicio – o trasferite in un robot… o in un altro corpo! Se si ritiene che la vita si limiti alla sopravvivenza di tale contenuto, la morte potrebbe sparire».
Vuol dire che si riduce pericolosamente la differenza tra uomo e robot?
«Reagiamo già come robot. Semplifichiamo i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare e il linguaggio per interagire con le macchine. Quando voglio contattare telefonicamente un’azienda di servizi e una voce mi ordina di 'premere asterisco', di 'dire sì o no', non ho scelta. Se reagisco da umano, dando prova di umorismo o di poesia, non accedo al servizio! Lo stesso quando ritiro i biglietti del treno alla macchinetta self-service…».
Le tecnologie ci spingono a perdere le nostre competenze?
«Noi 'esternalizziamo' sempre di più la nostra memoria. A forza di registrare i numeri di telefono sul cellulare, non sappiamo più memorizzarli. E sempre più spesso rinunciamo alla scrittura per il computer. Ma i supporti virtuali sono caduchi: la versione di un programma di scrittura viene sostituita quasi ogni anno. Se non aggiorniamo, non possiamo più leggere i vecchi dati archiviati. Si pone il problema della perennità della memoria umana, che viene così resa particolarmente fragile. Lo stesso vale per le nostre mani. Grazie a tecnologie sempre più performanti, le usiamo sempre meno. Eppure è stato l’atto di presa a permetterci, migliaia di anni fa, di fabbricare utensili. Altra specificità umana che tende a sparire».
Da parte loro, le macchine diventerebbero sempre più umane?
«Per far fronte all’invecchiamento della popolazione e prendersi cura degli anziani, giapponesi e coreani costruiscono robot androidi, dotati di corpo e rivestiti in silicone per imitare la pelle. Gli scienziati sono al lavoro anche su macchine in grado di imitare alla perfezione i comportamenti umani: possono parlare, riconoscere una voce e manifestare un’emozione in risposta agli stimoli ».
L’uomo non resta comunque padrone della situazione, dal momento che è lui a comandare la macchina?
«Non è più così semplice, poiché oggi costruiamo robot capaci di reagire in maniera autonoma. È il caso di Spirit, inviato su Marte, che sa adattarsi alle ostilità ambientali. Incredibilmente, da qualche tempo, sembra dare segni di disobbedienza e non risponde più agli ordini della Nasa: è possibile che abbia sviluppato un comportamento che ci sfugge. Quanto ai nanorobot – che saranno presto utilizzati in microchirurgia – finora avevano bisogno di energia fornita dall’esterno per 'sopravvivere' nell’organismo. Ma si è scoperto che è possibile ricaricarli grazie ai movimento del colon. Risultato: questi minuscoli dispositivi imbottiti di ricettori diventerebbero completamente autonomi e, in definitiva, incontrollabili».
L’evoluzione verso un essere 'postumano' è inevitabile?
«No, tranquillizziamoci. Ma è necessaria una massiccia presa di coscienza da parte della popolazione. Il fascino per le tecniche è il rovescio della medaglia di una disistima di sé e dell’umanità. Non si sopportano più la vecchiaia, la malattia e la morte, e tantomeno la casualità della nascita. Riconciliarci con la nostra finitudine, accettare le nostre debolezze… è il prerequisito per salvare l’umanità. In questo, le odierne filosofie, le spiritualità e le religioni hanno un ruolo da svolgere».
Concretamente, quali soluzioni abbiamo?
«Bisogna dare importanza ai pareri dei nostri comitati etici. Sono imprescindibili se vogliamo riuscire a posizionare abilmente il cursore tra quanto rientra nell’'aggiustare' l’umano' e quanto invece nell’'aumentarlo'. Anche sul piano individuale, si tratta di coltivare quei comportamenti che fanno di noi degli esseri umani. L’umorismo, la creatività, l’ironia. Tutte cose bandite dal 'politicamente corretto' e dalla standardizzazione. Mozart o Proust non possono essere ridotti a semplici sistemi di neuroni! Seguiamo il loro esempio. Possiamo inoltre rifiutare la robotizzazione che ci circonda, costringendoci a fare la fila allo sportello della banca invece di preferire il bancomat. Il problema è che, in certe agenzie, l’impiegato allo sportello non c’è più. Alla fine, la decisione di regolare meglio il movimento verso il post-umano deve essere conseguenza di una vera scelta di società, di una volontà politica forte».
(traduzione di Anna Maria Brogi)
«Avvenire» del 1 ottobre 2009
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