Ezra Pound passò 12 anni in manicomio per avere appoggiato il fascismo
di Pierluigi Battista
Le democrazie non perseguitano le idee, colpiscono solo i reati. Non sempre, però.
C'è stato un periodo della nostra storia in cui le democrazie hanno derogato a questo principio fondamentale. Ezra Pound, racconta la figlia Mary de Rachewiltz in un'intervista rilasciata ad Alessandro Rivali sull'ultimo numero di «Studi cattolici», fu segregato in un manicomio americano per dodici anni in una stanza «con le dimensioni di uno sgabuzzino». C'era lo spazio solo per la branda, il tavolo e una sedia. «La finestra era chiusa da un'inferriata», «nessuno poteva entrare» e gli unici oggetti consentiti al prigioniero erano una macchina da scrivere e alcune «scatole di cartone» per i libri. Prima di essere rinchiuso nel manicomio criminale di St. Elizabeths di Washington, Pound, subito dopo la Liberazione, era stato internato per mesi in un campo nei pressi di Pisa, in una «gabbia per gorilla», «bruciato dal sole, bagnato della pioggia». Ma erano tempi di furore e di vendetta. La clausura nel manicomio no, quella è stata una ritorsione a freddo, una scelta meditata, una punizione esemplare. Bollato come «infermo di mente», Pound veniva accusato di aver tradito l'America con il suo appoggio al fascismo di Mussolini. Nella storia aveva avuto ragione la democrazia americana. Ma sul piano dei principi la democrazia americana rinnegò se stessa colpendo un poeta per ciò che aveva scritto e pensato, e non per ciò che aveva fatto. Anche in Europa non ci fu pietà, misericordia e comprensione per gli intellettuali che avevano servito con il loro intelletto la barbarie nazista. Nei loro confronti vennero allestiti degli appositi riti di umiliazione. A Martin Heidegger fu inibito l'insegnamento e nel suo rifugio nella Foresta Nera i libri gli venivano recapitati con le pagine meticolosamente strappate dagli addetti alla censura. Il collaborazionista Knut Hamsun, oramai novantenne e completamente sordo, «girovago tra manicomio e ospizio», era «costretto a pescare la corrispondenza in un lago di minestra» e, come ha raccontato Filippo La Porta, venne arbitrariamente e crudelmente «escluso dal prestito della biblioteca». Il giurista Carl Schmitt passò in galera un anno e mezzo per difendersi dall'accusa di essere «il maggior criminale dal punto di vista morale». Il destino di Céline è noto: oltre all'esilio, venne decretata anche la confisca di tutti i suoi beni. Era giusto colpire così gli intellettuali che si erano schierati con il fascismo e il nazismo? Le idee sono colpevoli? E se la colpa è di aver sposato la causa del dispotismo contro la libertà, perché Pound è stato più colpevole di altri e meritevole di dodici anni di manicomio? E perché nessuno protestò quando il poeta dei «Cantos» era segregato nell'angusto spazio di uno sgabuzzino?
«Corriere della Sera» del 26 ottobre 2009
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