Riflessioni sul caso Marrazzo (e su noi uomini)
di Davide Rondoni
Il caso Marrazzo continua a tener banco, trascinato agli onori delle cronache da una catena di piccoli e grandi squallori. E io vorrei tenermi lontano dal guazzabuglio delle reazioni di parte e ancor di più – com’è costume di questo giornale – dal greve gioco al massacro che s’è subito aperto. Perché è legittimo stigmatizzare le debolezze di un uomo pubblico – e trarne, sul piano politico e morale, le inevitabili conseguenze – ma non può diventare motivo per massacrare la dignità sua e la sensibilità di coloro che lo amano o che gli sono legati.
Che questa sia, piuttosto, l’occasione per una riflessione seria, dura e al tempo stesso pietosa (sì usiamolo questo aggettivo, senza il quale ogni società umana decade, poiché senza pietà ogni umano consorzio si disfa e si insanguina). Perché si tratta di considerare una cosa: nel cuore di un uomo può agire la spinta ideale, buona e costruttiva a darsi da fare, a impegnarsi bene, e anche, contemporaneamente, agire la spinta a buttarsi via, a obnubilarsi in un oscuro dispendio di se stesso, del proprio corpo, della propria energia. Costruzione e dispendio. Fare del bene e buttarsi via. Questo può succedere, e non di rado.
Succede perché l’uomo è anche fatto così. Non è un meccanismo dove al bene si attacca e consegue per forza il bene. Possono convivere male e bene, alternarsi. Succedere l’uno all’altro. Non ce ne dovremmo stupire, se ci conosciamo almeno un poco. Lo diceva anche san Paolo di se stesso, figurati se non vale per ognuno di noi poveracci. I cristiani iniziano il momento più importante per loro, la Messa, battendosi il petto. L’ultimo peccatore come il Papa.
Sembra che queste cose non abbiano a che fare con la cronaca. Questa eterna contraddizione dell’esser nostro vale per i re, per i capi, e per il popolo. Per gli eletti, e per gli elettori. Se la questione morale fosse davvero il proporsi di una questione circa la moralità, beh allora dovremmo finalmente discutere su quali sono i reali argini alla debolezza morale (e dovremmo discutere anche su perché accade che mentre qualcuno viene "massacrato" e fatto fuori sui giornali sulla base di carte false, intorno ad altri, persino immortalati in video sgradevoli, scattano strani meccanismi di solidarietà e di protezione ad alto livello). Dovremmo discutere, insomma, su che cosa rende "morale" la vita di un uomo. La mancanza di errori? La presenza di un controllo totale sui suoi atti pubblici e privati? O la sua magari faticosa adesione a un pulito e schietto ideale di umanità? La sua costruzione di un’identità pubblica che non sia l’altra faccia di quella privata?
Eppure il caso Marrazzo mi suscita infinita pena. Dello stesso tipo di pena che ho verso me stesso, la medesima abbandonata e irrimediabile pena. Se davvero la "questione morale" fosse un momento per guardarsi in faccia, anche con le proprie debolezze, allora forse la politica e i suoi teatri ne riceverebbero una nuova tensione positiva, e un’aria meno ammalata. Se davvero fosse un’occasione per parlare tra uomini in carne e ossa, preoccupati per il decadere delle istituzioni politiche e di garanzia; insomma, se il disastro umano di questo o quel caso noto servisse per uscire un attimo dal teatro di "bambocci" (cioè di pupi, d’uomini finti) a cui sembra ridursi spesso la politica italiana, allora penso che ne verrebbe un guadagno per tutti. Ridiscutendo di cosa sia la morale, che tensione sia, che necessità ci sia di non fissarsela da soli, di non rispondere soltanto – senza stile e senza sobrietà – alla propria immagine di potere o di pensiero.
Una vera questione morale sarebbe il tratto di un’epoca di agire retto e dove non si usa la comune debolezza umana come clava gli uni contro gli altri. Dove politici, uomini dello Stato e mass media non lavorano per sfasciare la gente. E per prenderla per il naso. Sarebbe una stagione meno farisaica e scandalistica, più pulita e di maggior tensione al bene comune. Se no, ne verrà solo altro avvilimento, e incattivimento. Proseguendo un periodo cupo e pazzo in cui in nome della morale fai-da-te o improvvisamente riscoperta si distoglie amoralmente lo sguardo dai problemi veri della gente vera e si aprono le porte ai modi più feroci e distruttivi di lotta.
Che questa sia, piuttosto, l’occasione per una riflessione seria, dura e al tempo stesso pietosa (sì usiamolo questo aggettivo, senza il quale ogni società umana decade, poiché senza pietà ogni umano consorzio si disfa e si insanguina). Perché si tratta di considerare una cosa: nel cuore di un uomo può agire la spinta ideale, buona e costruttiva a darsi da fare, a impegnarsi bene, e anche, contemporaneamente, agire la spinta a buttarsi via, a obnubilarsi in un oscuro dispendio di se stesso, del proprio corpo, della propria energia. Costruzione e dispendio. Fare del bene e buttarsi via. Questo può succedere, e non di rado.
Succede perché l’uomo è anche fatto così. Non è un meccanismo dove al bene si attacca e consegue per forza il bene. Possono convivere male e bene, alternarsi. Succedere l’uno all’altro. Non ce ne dovremmo stupire, se ci conosciamo almeno un poco. Lo diceva anche san Paolo di se stesso, figurati se non vale per ognuno di noi poveracci. I cristiani iniziano il momento più importante per loro, la Messa, battendosi il petto. L’ultimo peccatore come il Papa.
Sembra che queste cose non abbiano a che fare con la cronaca. Questa eterna contraddizione dell’esser nostro vale per i re, per i capi, e per il popolo. Per gli eletti, e per gli elettori. Se la questione morale fosse davvero il proporsi di una questione circa la moralità, beh allora dovremmo finalmente discutere su quali sono i reali argini alla debolezza morale (e dovremmo discutere anche su perché accade che mentre qualcuno viene "massacrato" e fatto fuori sui giornali sulla base di carte false, intorno ad altri, persino immortalati in video sgradevoli, scattano strani meccanismi di solidarietà e di protezione ad alto livello). Dovremmo discutere, insomma, su che cosa rende "morale" la vita di un uomo. La mancanza di errori? La presenza di un controllo totale sui suoi atti pubblici e privati? O la sua magari faticosa adesione a un pulito e schietto ideale di umanità? La sua costruzione di un’identità pubblica che non sia l’altra faccia di quella privata?
Eppure il caso Marrazzo mi suscita infinita pena. Dello stesso tipo di pena che ho verso me stesso, la medesima abbandonata e irrimediabile pena. Se davvero la "questione morale" fosse un momento per guardarsi in faccia, anche con le proprie debolezze, allora forse la politica e i suoi teatri ne riceverebbero una nuova tensione positiva, e un’aria meno ammalata. Se davvero fosse un’occasione per parlare tra uomini in carne e ossa, preoccupati per il decadere delle istituzioni politiche e di garanzia; insomma, se il disastro umano di questo o quel caso noto servisse per uscire un attimo dal teatro di "bambocci" (cioè di pupi, d’uomini finti) a cui sembra ridursi spesso la politica italiana, allora penso che ne verrebbe un guadagno per tutti. Ridiscutendo di cosa sia la morale, che tensione sia, che necessità ci sia di non fissarsela da soli, di non rispondere soltanto – senza stile e senza sobrietà – alla propria immagine di potere o di pensiero.
Una vera questione morale sarebbe il tratto di un’epoca di agire retto e dove non si usa la comune debolezza umana come clava gli uni contro gli altri. Dove politici, uomini dello Stato e mass media non lavorano per sfasciare la gente. E per prenderla per il naso. Sarebbe una stagione meno farisaica e scandalistica, più pulita e di maggior tensione al bene comune. Se no, ne verrà solo altro avvilimento, e incattivimento. Proseguendo un periodo cupo e pazzo in cui in nome della morale fai-da-te o improvvisamente riscoperta si distoglie amoralmente lo sguardo dai problemi veri della gente vera e si aprono le porte ai modi più feroci e distruttivi di lotta.
«Avvenire» del 27 Ottobre 2009
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