29 ottobre 2009

L'imbianchino di Dio e la sua Bibbia

La storica animatrice della Bezalel Academy di Gerusalemme e i ricordi di un' amicizia
di Francesco Battistini
Ziva Amishai: «Dipinse l' ebraismo più familiare sognando la pace»
«Enigmatico. Poetico. Impalpabile». Francamente, dice Ziva Amishai di Marc Chagall, era uno che spiazzava. L'ultima volta che venne in Israele, 1977, Ziva se la ricorda bene: grandi onori per i novant'anni, retrospettiva, cittadinanza gerosolimitana e laurea honoris causa assieme a Harold Wilson, l'ex premier inglese... «Chagall aveva già fatto decine di viaggi, qui. Ma era un entusiasta di tutto. Ogni cosa lo stupiva. Un giorno, andammo a vedere una fattoria. Si fermò davanti a una mucca, come fosse la cosa più straordinaria. Esclamò con ironica meraviglia: "Guarda, una mucca ebrea!"». Una cosa che avrebbe potuto dire anche nel '31, la sua prima volta in Palestina. Perché Chagall ha sempre dipinto le mucche («le amo molto»). «E perché era perennemente alla ricerca delle sue radici ebraiche: vedeva nel Medio Oriente, in ogni angolo, un luogo in cui i suoi avi avevano vissuto e sofferto». Il pittore sionista. L'imbianchino di Dio. Ci fu uno Chagall innamorato d'Israele, e delle origini bibliche, che certa critica ha un po' evitato e per ragioni non solo artistiche. C'è un'ebraicità insistita che turbò, e spinse a polemizzare, il cattolico Giovanni Testori. È tutto ciò che invece affascina Ziva Amishai, 70 anni, storica animatrice della Bezalel Academy di Gerusalemme, studiosa e testimone delle immersioni che l'artista si concedeva nella terra degli avi. «Chagall aveva molti amici. I suoi appuntamenti erano Teddy Kollek, il sindaco di Gerusalemme che aveva trasferito di personale sue opere da Parigi in città, portandole dentro cinque valigie. O Abraham Sutzkever, il poeta, bielorusso come lui. O Reuven Rubin, il pittore più vicino alla sua arte. Li vedeva, ma non divideva la loro casa: preferiva stare in hotel. Scendeva spesso all'American Colony. Solo la prima volta accettò d'essere ospite di Meir Dizengoff, il sindaco di Tel Aviv che amava attirare artisti in Palestina, perché trovassero ispirazione». Chagall non faticò a trovarla, l'ispirazione. «Sono un piccolo ebreo di Vitebsk - si chiedeva -, che vado a fare in Palestina?». Girò tra Haifa e il lago di Tiberiade, s'appassionò ai kibbutz e alla cabala. «Dipinse il giudaismo che gli era familiare - spiega la professoressa Amishai - e che prese come base per esplorare la Terrasanta. Riprodusse luoghi che avevano per lui un significato personale, come la Porta dell'Immondizia, la piccola e modesta sinagoga di Hagoral». Lasciando capolavori come le vetrate bibliche dell' ospedale Hadassah, «dodici finestre attraverso le quali passa una cosa mistica». O le decorazioni della Knesset, il Parlamento israeliano: «Un'idea meravigliosa. Alla Knesset, c'è tutto Chagall condensato: gli arazzi, ispirati alle sue illustrazioni della Bibbia, si rifanno alla storia del popolo ebreo; il mosaico murale del Parlamento è una rappresentazione del Muro del Pianto; i mosaici del pavimento riprendono le opere del primo viaggio in Palestina e gl'interni delle sinagoghe di Safed e di Gerusalemme. La Chagall Room è l'unica sala del Parlamento dedicata a un artista. Perché qui ha fuso il biblico e il moderno, Re Davide e il popolo d' Israele, la tradizione ebraica e la cittadinanza israeliana. Ma non ha usato gli occhi d' un pioniere: l'idea è di trasmettere un senso di pace». Una pace sognata, non pensata: «I suoi sentimenti politici erano fortemente pro-israeliani e antiarabi. Ma non perché ce l'avesse con l'Islam. Non si poneva in uno scontro di religioni. Solo, vedeva la storia come un cammino di salvezza del suo popolo. Una volta, andò al Cairo a vedere le piramidi. Ma rifiutò di continuare il viaggio in Egitto: "Non mi disturbo per dei Faraoni che hanno fatto i progrom contro i miei avi!". Ironizzava sul messaggio della sua opera: "Chagall... chi può capire Chagall?", diceva a chi gli chiedeva un'interpretazione». Lo capivano in molti, invece. Quindici anni dopo la morte, una sera di giugno, un dipinto sparì dal Jewish Museum di New York. I ladri si fecero vivi con una lettera all' Fbi. Non volevano soldi: lo Studio per ' Sopra Vitebsk' , troppo sconvolgente, sarebbe stato restituito solo in cambio della pace in Medio Oriente. Il quadro ritornò pochi mesi dopo. La pace, si sa.
«Corriere della Sera» del 28 ottobre 2009

Nessun commento: