Se il dibattito partitico diviene canea e oscura anche la buona politica
di Davide Rondoni
Uno parla e straparla, l’altro s’offende e rincara la dose, poi volano mezzi insulti, battute e battutacce, sfottò e via così. Il dibattito diviene canea, e il cittadino spegne il video e manda tutti a farsi benedire, anche lui con qualche espressione colorita, ma detta a bassa voce così non disturba la moglie o i bimbi addormentati. E mentre nella sua testa rieccheggiano le parole e le baruffe, s’addormenta pensando ai problemi veri: che lavoro trovare o migliorare, che scuola dare ai piccoli, come far sorridere la moglie.
E quelle parole volate negli studi televisivi, e da lì ai giornali, e dai giornali di nuovo ai video, passando per radio, agenzie, tribune, sembrano sempre più lontane, vacue.
Inutili. E non c’è niente di più inutile di una parola inutile. Niente di più sconcio.
Quando il Vangelo invita a esprimersi con dei sì che siano dei ' sì' e dei no allo stesso modo, invita a una essenzialità della lingua.
Non vuole ridurci al silenzio o ai monosillabi, ma a un rapporto forte, diretto, essenziale tra le parole e la realtà.
La vera parola sconcia è quella che è del tutto inutile a muovere qualcosa nella realtà. La parola veramente sconcia, la vera parolaccia, è quella che afferma solo la forza o l’astuzia o la vanità di chi la pronuncia. E questo linguaggio è segno di debolezza. Ovvero di debole rapporto con la realtà. Alto è lo schiamazzo di alcuni politici, ma bassa è la forza della politica. Il teatro del dibattito politico italiano sta diventando questo. In parte. Sì, in parte.
Perché esiste questo orrendo linguaggio sconcio, nel senso di inutile, ripetuto, ossessivo, di alcuni contro alcuni altri. Ma esiste anche altro parlare, un altro ' parlamento'. E allora è doppiamente sconcio quello a cui troppi tribuni e trasmissioni e giornali di varie parti ci stanno abituando, perché esso priva la maggior parte degli italiani della possibilità di ascoltare le tante parole interessanti che pur ci sono nel lavoro di molti che fanno politica.
Non tutta la lingua della politica è sconcia.
Non tutta è tribunizia e offensiva o banalmente, tronfiamente retorica. Ci sono altre parole, altre conversazioni, anche tra persone di sponde opposte che non fanno chiasso, che non ottengono dai media (che hanno gravi colpe) l’udienza sconcia data alle parole sconcie. E queste sono le conversazioni migliori della politica italiana. Mi raccontavano ad esempio di conversazioni tra deputati di diversi schieramenti per vedere come aiutare meglio con leggi ad hoc i talenti dei giovani italiani. Gruppi o intergruppi di parlamentari. Ma la chiacchiera inutile, ripetitiva, ossessa di alcuni le copre. Gli italiani, si sa, amano il linguaggio colorito.
Ognuno di noi prova simpatia per certe espressioni gustose dialettali o del parlato popolare. La lingua e i modi con cui la usiamo formano la coscienza di chi siamo.
Ma c’è una differenza tra il linguaggio colorito e quello sconcio della inutilità. E tale differenza non sta nella quantità di epiteti coloriti usati. E’ che il primo serviva e può ancora servire a sollevare, a confortare, per così dire a corroborare l’animo del nostro popolo, anche quando passava grandi difficoltà. Totò ha fatto ridere un’Italia non troppo felice e comunque impegnata a risalire. Questa lingua lontana dalla vita (e dalle arti della vera migliore retorica) invece sta facendo l’effetto di deprimere, di stufare, di scoraggiare anche quelli che avrebbero più voglia di dare una mano per il bene comune. Non vogliamo politici che parlino come ragionieri o come maestrine dell’800. Ci annoieremmo mortalmente. Ma ci annoia di più la sconcezza di un parlare e sparlare lontano dai problemi della vita reale.
E quelle parole volate negli studi televisivi, e da lì ai giornali, e dai giornali di nuovo ai video, passando per radio, agenzie, tribune, sembrano sempre più lontane, vacue.
Inutili. E non c’è niente di più inutile di una parola inutile. Niente di più sconcio.
Quando il Vangelo invita a esprimersi con dei sì che siano dei ' sì' e dei no allo stesso modo, invita a una essenzialità della lingua.
Non vuole ridurci al silenzio o ai monosillabi, ma a un rapporto forte, diretto, essenziale tra le parole e la realtà.
La vera parola sconcia è quella che è del tutto inutile a muovere qualcosa nella realtà. La parola veramente sconcia, la vera parolaccia, è quella che afferma solo la forza o l’astuzia o la vanità di chi la pronuncia. E questo linguaggio è segno di debolezza. Ovvero di debole rapporto con la realtà. Alto è lo schiamazzo di alcuni politici, ma bassa è la forza della politica. Il teatro del dibattito politico italiano sta diventando questo. In parte. Sì, in parte.
Perché esiste questo orrendo linguaggio sconcio, nel senso di inutile, ripetuto, ossessivo, di alcuni contro alcuni altri. Ma esiste anche altro parlare, un altro ' parlamento'. E allora è doppiamente sconcio quello a cui troppi tribuni e trasmissioni e giornali di varie parti ci stanno abituando, perché esso priva la maggior parte degli italiani della possibilità di ascoltare le tante parole interessanti che pur ci sono nel lavoro di molti che fanno politica.
Non tutta la lingua della politica è sconcia.
Non tutta è tribunizia e offensiva o banalmente, tronfiamente retorica. Ci sono altre parole, altre conversazioni, anche tra persone di sponde opposte che non fanno chiasso, che non ottengono dai media (che hanno gravi colpe) l’udienza sconcia data alle parole sconcie. E queste sono le conversazioni migliori della politica italiana. Mi raccontavano ad esempio di conversazioni tra deputati di diversi schieramenti per vedere come aiutare meglio con leggi ad hoc i talenti dei giovani italiani. Gruppi o intergruppi di parlamentari. Ma la chiacchiera inutile, ripetitiva, ossessa di alcuni le copre. Gli italiani, si sa, amano il linguaggio colorito.
Ognuno di noi prova simpatia per certe espressioni gustose dialettali o del parlato popolare. La lingua e i modi con cui la usiamo formano la coscienza di chi siamo.
Ma c’è una differenza tra il linguaggio colorito e quello sconcio della inutilità. E tale differenza non sta nella quantità di epiteti coloriti usati. E’ che il primo serviva e può ancora servire a sollevare, a confortare, per così dire a corroborare l’animo del nostro popolo, anche quando passava grandi difficoltà. Totò ha fatto ridere un’Italia non troppo felice e comunque impegnata a risalire. Questa lingua lontana dalla vita (e dalle arti della vera migliore retorica) invece sta facendo l’effetto di deprimere, di stufare, di scoraggiare anche quelli che avrebbero più voglia di dare una mano per il bene comune. Non vogliamo politici che parlino come ragionieri o come maestrine dell’800. Ci annoieremmo mortalmente. Ma ci annoia di più la sconcezza di un parlare e sparlare lontano dai problemi della vita reale.
«Avvenire» del 10 ottobre 2009
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