di Marianna Rizzini
Chi è sul palco vede facce – una massa indistinta di teste, molti occhi spalancati. Chi è in piazza vede striscioni, onde di bandiere che si spostano, buchi nella folla. Chi recita sa che molti nel pubblico oggi sonnecchiano mentre onorano l’abbonamento alla stagione – come dice un intellettuale romano che ne ha viste tante: “Sono lontani i tempi in cui i ragazzi andavano al bar accanto al teatro Eliseo dove si arruolavano i claqueurs (‘tu sì’, ‘tu no’ in base all’ordine di arrivo). Si andava per il piacere di vedere teatro: non c’erano soldi per il biglietto, e questo era il sistema per procurarseli”. Chi è in uno studio televisivo ha davanti un pubblico più o meno pagato per fare il pubblico, e in realtà si rivolge a un numero imprecisato di invisibili da sedurre, convincere, catturare (almeno per quelle due ore). Ma chi siano, questi invisibili, e che cosa pensino, nessuno può saperlo esattamente. Nessuno tranne Michele Santoro – che ieri ha interpretato il pensiero di sette milioni e trecentomila menti sintonizzate la sera precedente su Annozero: “Il pubblico non vuole censura”, ha detto. E vabbè. E poi però ha aggiunto: “La convinzione che tutto sia legato al fatto che il pubblico non voglia censure lo si deduce non tanto dal risultato numerico, importantissimo, ma dalla permanenza altissima davanti alla televisione, che solitamente si riscontra per le partite. Ieri le persone si sono messe davanti alla tv con l’intenzione di restarci fino all’ultimo, e ciò dimostra il loro modo di sostenere che è questo tipo di televisione che vuole seguire”.
Che gli ascolti siano stati altissimi è indubbio (come alti sono stati quelli di “Porta a Porta”, sugli stessi argomenti, e quelli di “Parla con me”). Che a molti interessasse ciò che aveva da dire Patrizia D’Addario pure. Che la trasmissione sia stata un successo mediatico non turbato da censure ancora di più. Sul perché tutte quelle persone siano rimaste incollate ad Annozero la sera in cui c’era l’intervista a Patrizia D’Addario, però, non v’è certezza: oltre alla motivazione universale intravista da Santoro, infatti (“non vogliono censura”), ce ne sono almeno altre sette molto probabili: c’è chi si è sintonizzato per curiosità, chi pensando di informarsi, chi perché il tema “D’Addario” significa di sicuro rissa tra due o più persone in studio, chi per vedere la signora D’Addario e basta, come fosse Milingo o Brad Pitt, chi per vedere che fa Santoro stasera (vista la polemica permanente), chi perché stima Santoro nonostante sia in disaccordo con lui, chi per sentirsi dire quello che ci si vuole sentire dire da Santoro – ché Santoro soddisfa la voglia di “guru” di molti telespettatori. Ma il punto è un altro: il pubblico è davvero quell’eroe collettivo consapevole e scansacensure dipinto da Michele Santoro?
E però anche quando non c’è Santoro e anche in contesti in cui lo spettacolo non è la televisione, il pubblico vuole essere guidato, accompagnato, rassicurato. Vuole avere l’illusione di essere coraggioso (attraverso l’appoggio a qualcuno che reputa coraggioso). Vuole schierarsi comodamente, cioè secondo quello che dice qualcuno che considera autorevole – qualsiasi cosa dica. La maggioranza di chi si fa pubblico non ha interesse a interrogarsi o a essere interrogata. Vado, ascolto, osanno o condanno – che lo spettacolo sia un convegno, un programma trash, un programma di approfondimento, un festival o un premio, che la rissa sia nel Pd o attorno alla vita amorosa di Silvio Berlusconi.
Gli indicatori di gradimento non spiegano perché si sceglie un programma, uno spettacolo, un comizio-spettacolo. I campioni di ascolto sono basati su una popolazione italiana che ha ancora, secondo il Censis, 17 milioni di semianalfabeti, (come dice Carlo Freccero: “Non vuol dire che siano tutti scemi, vuol dire che la lettura è cosa difficoltosa, e che chi non abita la galassia Gutenberg ha magari grandi competenze mediatiche ma consuma gli eventi nella loro immediatezza, e fa passare in secondo piano la ricerca delle motivazioni”. La tv generalista, dice Freccero, “ha lavorato sulla maggioranza con un processo progressivo di svuotamento di contenuti di valore. E allora oggi si pensa che la salvezza sia nei nativi digitali, bambini a cui è arrivato il computer prima dell’alfabetizzazione. Ma stiamo attenti, perché questi ragazzi non cercano ma fanno la verità. Il verbo non è essere o avere, ma fare. Reagiscono all’emozione. Gli interessa di più che cosa hanno provato i pompieri l’undici settembre che capire perché è avvenuto l’undici settembre”.
Di un primato dell’emozione “tipico del tempo moderno e drammatizzato dalla crisi economica” parla il sociologo delle Comunicazioni Mario Morcellini: “L’emotività di massa fa smarrire la differenza tra pubblico e privato. Il successo dei reality si basa sul fatto che nella crisi non ci fidiamo dell’altro, ma abbiamo bisogno di vederlo, di metterlo in scena. Il pubblico più debole sembra sfruttare la rappresentazione del rapporto con gli altri senza contenuti. E’ come se i soggetti non avessero più ritrosia a mettere in piazza l’intimo del cuore di cui parlava sant’Agostino”.
Il “pubblico della resistenza culturale”, quello che secondo Morcellini “non variega i consumi culturali ma resta inchiodato alla tv”, non si inchioda per quella che Aldo Grasso chiama “la stupefazione del mezzo dei primi anni della tv, quando la televisione era vissuta in modo quasi miracolistico”. Dice Grasso che “un tempo, per gli autori, il pubblico era un’entità astratta che copriva l’intera nazione: c’erano in gioco valori che la riguardavano.
A partire dall’inizio degli anni Ottanta, però, il pubblico della tv generalista è diventato l’entità più sotto controllo che esista. Non si lavora più per un ideale ma per un target precisissimo. Oggi c’è un pubblico che ha la possibilità anche economica di scegliersi i programmi, quello della pay tv, e c’è un pubblico che non sceglie, piuttosto anziano e passivo. Per mantenere in vita questo pubblico si fa qualsiasi nefandezza. Guardando i grafici degli ascolti, si vede che ogni volta che qualcosa rompe la calma, l’ascolto si impenna. Il telecomando è un sensore per cercatori di rissa”.
Negli anni Ottanta, mentre il pubblico smetteva di essere “entità astratta”, Renzo Arbore si stufò di inseguire la maggioranza dell’audience. Con il suo “Quelli della notte” (“un programma che non aveva ascolti molto alti”, dice oggi), riuscì a creare un cult senza mirare a un pubblico di massa (certo non era “di massa” il Romano Prodi fresco di Iri che, ridente, sedeva in platea durante l’ultima puntata). Preoccupato per lo stato delle attuali platee (non solo televisive, dice Arbore, visto che il campione Auditel è ricalcato sulla popolazione Istat), e cioè per le platee composte perlopiù da gente con istruzione elementare e mediobassa, Arbore ha assistito ancora più preoccupato “a quello che è successo la sera del caso Englaro: otto milioni sintonizzati sul Grande Fratello contro i sei milioni delle altre reti riunite”. Ad Arbore, comunque, non bastò la sfida di “Quelli della notte”. Poi venne “Avanti tutta”, un programma che, dice ora, “aveva una doppia lettura. C’erano le ragazze Coccodè, gli errori di grammatica di Frassica, gli sfottò ai quiz. Piaceva al colto e all’inclita”. Oggi Arbore vede come “antidoto” all’ottundimento di pubblico e tv “una trasmissione che abbia poco ascolto e faccia tanto rumore. Auspico un giudizio di gradimento: si dica non solo dove ci si è sintonizzati, ma se è piaciuto e perché”.
Gli anni Ottanta furono anche anni di sperimentazione con il pubblico. Gianni Ippoliti oggi ricorda con orgoglio di aver “sperimentato a costo quasi zero” con il suo “Provini”: “Costava due milioni di lire a puntata. La gente che veniva in studio a fare provini era gente normale, gente che lavorava. Non venivano per fare film o talent show. Erano provini per un’eventuale pubblicità. Dicevo: non siete belli né famosi né raccomandati. Per la pubblicità, però, può andare bene un tipo: provate. Alcuni furono presi davvero, come l’uomo che urlava ‘Urrà, urrà!’, preso per ‘Urrà Saiwa’”.
Oggi Ippoliti dice che “la sperimentazione non si fa perché vincono i format – qualcuno deve produrli fuori dall’azienda, così girano molti più soldi”. Dalla sua rassegna stampa di settimanali gossip addita “l’asse del male Fabrizio Corona-Lele Mora. Gira tutto attorno ai personaggi sfornati da quei due. Ci sono settantuno testate di gossip in Italia. La maggior parte vive con le foto di quelli che vanno in tv a fare gli ospiti e gridano, bestemmiano, fanno a botte. Gente che non sa fare nulla. Gente cui viene detto: io ti faccio diventare famoso senza pagarti, tu diventi famoso e poi ti fai le tue serate. Si producono foto su foto per settimanali che non sanno dove metterle, ed ecco perché alcune case editrici hanno varie testate simili, per lettori che evidentemente le comprano”.
I dati d’ascolto non spiegano neppure se è il guru che influenza il pubblico o se è l’umore del pubblico a dettare la linea al guru (un guru che può essere chiunque: un presentatore, un prestigiatore, un attore, un politico, un commentatore). Ettore Bernabei, in anni lontani, un giorno allargò le braccia e disse ai suoi che il pubblico era fatto “da venti milioni di teste di cazzo” (poi, intervistato da Claudio Sabelli Fioretti, corresse la parola “teste di cazzo”, ma la sostanza rimase intatta): “Io dicevo che anche le persone colte, di media cultura, quelle che hanno fatto le superiori, quando sono di fronte al televisore sono come dei ragazzi delle elementari. Tutti quelli che avevano 40/50 anni e avevano fatto solo le elementari praticamente erano analfabeti di ritorno, non leggevano né libri né giornali. Guardavano la televisione. Io dissi: mettetevi in mente che fra i 50 milioni di italiani ci sono 20 milioni di analfabeti… Nessuno pensa più alla qualità del pubblico. Non interessa più a nessuno sapere chi sono le persone che guardano uno spettacolo. Basta che siano tante”.
Che gli ascolti siano stati altissimi è indubbio (come alti sono stati quelli di “Porta a Porta”, sugli stessi argomenti, e quelli di “Parla con me”). Che a molti interessasse ciò che aveva da dire Patrizia D’Addario pure. Che la trasmissione sia stata un successo mediatico non turbato da censure ancora di più. Sul perché tutte quelle persone siano rimaste incollate ad Annozero la sera in cui c’era l’intervista a Patrizia D’Addario, però, non v’è certezza: oltre alla motivazione universale intravista da Santoro, infatti (“non vogliono censura”), ce ne sono almeno altre sette molto probabili: c’è chi si è sintonizzato per curiosità, chi pensando di informarsi, chi perché il tema “D’Addario” significa di sicuro rissa tra due o più persone in studio, chi per vedere la signora D’Addario e basta, come fosse Milingo o Brad Pitt, chi per vedere che fa Santoro stasera (vista la polemica permanente), chi perché stima Santoro nonostante sia in disaccordo con lui, chi per sentirsi dire quello che ci si vuole sentire dire da Santoro – ché Santoro soddisfa la voglia di “guru” di molti telespettatori. Ma il punto è un altro: il pubblico è davvero quell’eroe collettivo consapevole e scansacensure dipinto da Michele Santoro?
E però anche quando non c’è Santoro e anche in contesti in cui lo spettacolo non è la televisione, il pubblico vuole essere guidato, accompagnato, rassicurato. Vuole avere l’illusione di essere coraggioso (attraverso l’appoggio a qualcuno che reputa coraggioso). Vuole schierarsi comodamente, cioè secondo quello che dice qualcuno che considera autorevole – qualsiasi cosa dica. La maggioranza di chi si fa pubblico non ha interesse a interrogarsi o a essere interrogata. Vado, ascolto, osanno o condanno – che lo spettacolo sia un convegno, un programma trash, un programma di approfondimento, un festival o un premio, che la rissa sia nel Pd o attorno alla vita amorosa di Silvio Berlusconi.
Gli indicatori di gradimento non spiegano perché si sceglie un programma, uno spettacolo, un comizio-spettacolo. I campioni di ascolto sono basati su una popolazione italiana che ha ancora, secondo il Censis, 17 milioni di semianalfabeti, (come dice Carlo Freccero: “Non vuol dire che siano tutti scemi, vuol dire che la lettura è cosa difficoltosa, e che chi non abita la galassia Gutenberg ha magari grandi competenze mediatiche ma consuma gli eventi nella loro immediatezza, e fa passare in secondo piano la ricerca delle motivazioni”. La tv generalista, dice Freccero, “ha lavorato sulla maggioranza con un processo progressivo di svuotamento di contenuti di valore. E allora oggi si pensa che la salvezza sia nei nativi digitali, bambini a cui è arrivato il computer prima dell’alfabetizzazione. Ma stiamo attenti, perché questi ragazzi non cercano ma fanno la verità. Il verbo non è essere o avere, ma fare. Reagiscono all’emozione. Gli interessa di più che cosa hanno provato i pompieri l’undici settembre che capire perché è avvenuto l’undici settembre”.
Di un primato dell’emozione “tipico del tempo moderno e drammatizzato dalla crisi economica” parla il sociologo delle Comunicazioni Mario Morcellini: “L’emotività di massa fa smarrire la differenza tra pubblico e privato. Il successo dei reality si basa sul fatto che nella crisi non ci fidiamo dell’altro, ma abbiamo bisogno di vederlo, di metterlo in scena. Il pubblico più debole sembra sfruttare la rappresentazione del rapporto con gli altri senza contenuti. E’ come se i soggetti non avessero più ritrosia a mettere in piazza l’intimo del cuore di cui parlava sant’Agostino”.
Il “pubblico della resistenza culturale”, quello che secondo Morcellini “non variega i consumi culturali ma resta inchiodato alla tv”, non si inchioda per quella che Aldo Grasso chiama “la stupefazione del mezzo dei primi anni della tv, quando la televisione era vissuta in modo quasi miracolistico”. Dice Grasso che “un tempo, per gli autori, il pubblico era un’entità astratta che copriva l’intera nazione: c’erano in gioco valori che la riguardavano.
A partire dall’inizio degli anni Ottanta, però, il pubblico della tv generalista è diventato l’entità più sotto controllo che esista. Non si lavora più per un ideale ma per un target precisissimo. Oggi c’è un pubblico che ha la possibilità anche economica di scegliersi i programmi, quello della pay tv, e c’è un pubblico che non sceglie, piuttosto anziano e passivo. Per mantenere in vita questo pubblico si fa qualsiasi nefandezza. Guardando i grafici degli ascolti, si vede che ogni volta che qualcosa rompe la calma, l’ascolto si impenna. Il telecomando è un sensore per cercatori di rissa”.
Negli anni Ottanta, mentre il pubblico smetteva di essere “entità astratta”, Renzo Arbore si stufò di inseguire la maggioranza dell’audience. Con il suo “Quelli della notte” (“un programma che non aveva ascolti molto alti”, dice oggi), riuscì a creare un cult senza mirare a un pubblico di massa (certo non era “di massa” il Romano Prodi fresco di Iri che, ridente, sedeva in platea durante l’ultima puntata). Preoccupato per lo stato delle attuali platee (non solo televisive, dice Arbore, visto che il campione Auditel è ricalcato sulla popolazione Istat), e cioè per le platee composte perlopiù da gente con istruzione elementare e mediobassa, Arbore ha assistito ancora più preoccupato “a quello che è successo la sera del caso Englaro: otto milioni sintonizzati sul Grande Fratello contro i sei milioni delle altre reti riunite”. Ad Arbore, comunque, non bastò la sfida di “Quelli della notte”. Poi venne “Avanti tutta”, un programma che, dice ora, “aveva una doppia lettura. C’erano le ragazze Coccodè, gli errori di grammatica di Frassica, gli sfottò ai quiz. Piaceva al colto e all’inclita”. Oggi Arbore vede come “antidoto” all’ottundimento di pubblico e tv “una trasmissione che abbia poco ascolto e faccia tanto rumore. Auspico un giudizio di gradimento: si dica non solo dove ci si è sintonizzati, ma se è piaciuto e perché”.
Gli anni Ottanta furono anche anni di sperimentazione con il pubblico. Gianni Ippoliti oggi ricorda con orgoglio di aver “sperimentato a costo quasi zero” con il suo “Provini”: “Costava due milioni di lire a puntata. La gente che veniva in studio a fare provini era gente normale, gente che lavorava. Non venivano per fare film o talent show. Erano provini per un’eventuale pubblicità. Dicevo: non siete belli né famosi né raccomandati. Per la pubblicità, però, può andare bene un tipo: provate. Alcuni furono presi davvero, come l’uomo che urlava ‘Urrà, urrà!’, preso per ‘Urrà Saiwa’”.
Oggi Ippoliti dice che “la sperimentazione non si fa perché vincono i format – qualcuno deve produrli fuori dall’azienda, così girano molti più soldi”. Dalla sua rassegna stampa di settimanali gossip addita “l’asse del male Fabrizio Corona-Lele Mora. Gira tutto attorno ai personaggi sfornati da quei due. Ci sono settantuno testate di gossip in Italia. La maggior parte vive con le foto di quelli che vanno in tv a fare gli ospiti e gridano, bestemmiano, fanno a botte. Gente che non sa fare nulla. Gente cui viene detto: io ti faccio diventare famoso senza pagarti, tu diventi famoso e poi ti fai le tue serate. Si producono foto su foto per settimanali che non sanno dove metterle, ed ecco perché alcune case editrici hanno varie testate simili, per lettori che evidentemente le comprano”.
I dati d’ascolto non spiegano neppure se è il guru che influenza il pubblico o se è l’umore del pubblico a dettare la linea al guru (un guru che può essere chiunque: un presentatore, un prestigiatore, un attore, un politico, un commentatore). Ettore Bernabei, in anni lontani, un giorno allargò le braccia e disse ai suoi che il pubblico era fatto “da venti milioni di teste di cazzo” (poi, intervistato da Claudio Sabelli Fioretti, corresse la parola “teste di cazzo”, ma la sostanza rimase intatta): “Io dicevo che anche le persone colte, di media cultura, quelle che hanno fatto le superiori, quando sono di fronte al televisore sono come dei ragazzi delle elementari. Tutti quelli che avevano 40/50 anni e avevano fatto solo le elementari praticamente erano analfabeti di ritorno, non leggevano né libri né giornali. Guardavano la televisione. Io dissi: mettetevi in mente che fra i 50 milioni di italiani ci sono 20 milioni di analfabeti… Nessuno pensa più alla qualità del pubblico. Non interessa più a nessuno sapere chi sono le persone che guardano uno spettacolo. Basta che siano tante”.
«Il Foglio» del 3 ottobre 2009
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