01 ottobre 2009

Lingua, lunga vita al congiuntivo

Un’indagine rivela che nonostante strafalcioni consumati un po’ dappertutto, dalla scuola alla tv, è un modo verbale vivo e vegeto
di Rossana Sisti
Quello del ministro D’Ono­frio, quando nel 1994 era al­l’Istruzione, sarà difficile da cancellare dalla memoria visto che lo strafalcione gli partì in diretta, durante un’intervista al Tg2, a proposito di una probabile sop­pressione dei licei dalla scuola ita­liana. «Vorrei che ne parliamo», gli scappò detto e lo scivolone gli fu fatale: il giorno dopo il ministro finì sbeffeggiato sulle prime pagine dei giornali e a nulla valse un tentati­vo di riparare il mal detto con una replica ardita. Finì per far peggio adducendo che «non è colpa mia se la prima persona plurale tanto dell’indicativo che del congiuntivo presente sono uguali: parliamo » . Che l’allora ministro sapesse ma­neggiare l’italiano è fuor di dubbio eppure il caso è emblematico di u­na specifica intolleranza: tra i tan­ti scivoloni linguistici in cui si può incorrere non c’è peggiore sfortu­na, italianamente parlando, di im­broccare in «Fantozzi» un congiuntivo sbagliato. Lo scandalo è immediato, la san­zione sociale tagliente come una mannaia, tanto più se chi inciam­pa è in qualche modo scolarizzato, magari fa il ministro, l’assessore al­la cultura, il manager d’azienda o il giornalista. Perché, sia chiaro, lo strafalcione è trasversale e tutt’al­tro che confinato alla cerchia di quanti nella vita non hanno stu­diato. Ma per costori ci mostriamo tolleranti e persino comprensivi, a­gli altri – fior di professionisti, quel­li che si ritiene dovrebbero parlare italiano con disinvoltura e corret­tezza – non si perdona. Il congiun­tivo sbagliato o mancato vale un marchio di infamia linguistica.
Parlare di congiuntivo comunque è di gran moda, denunciarne la scomparsa, come pure gridare alla decadenza della lingua ed elogiare i tempi in cui modi e tempi dei ver­bi non si sbagliavano. Dunque po­trebbe sembrare la posizione di due bastian contrari quella che Valeria della Valle, linguista, e Giuseppe Pa­tota, storico della lingua, sosten­gono in questa ricerca a quattro mani che già nel titolo Viva il con­giuntivo (Sperling & Kupfer, 15 €) racchiude una divertente am­biguità linguistica: viva nel senso di evviva, come espressione di giu­bilo per quelle preziosissime sfu­mature che il congiuntivo regala al­le nostre frasi; viva, in qualità di for­ma verbale esortativa: viva a lun­go! Fuori dai luoghi comuni e dal­le nostalgie di una purezza lingui­stica che non è mai esistita, fuori da ogni pregiudizio e dati alla ma­no, i due autori – da tempo una coppia professionalmente affiata­ta nel produrre manuali di scrittu­ra e grammatiche ragionate – ci rac­contano che il congiuntivo è vivo e vegeto. E che l’espansione dell’in­dicativo è dovuto alla pressione dell’italiano parlato, più rilassato e disinvolto di quello formale scritto, e non certo all’uso degli sms o al­l’influenza dei dialetti. Analizzan­do articoli di giornali, ore e ore di trasmissioni televisive e radiofoni­che, rileggendo indagini che han­no preso in considerazione fumet­ti, fotoromanzi e romanzi rosa, il lessico dell’italiano parlato e per­sino i compiti dei ragazzi delle su­periori, Della Valle e Patota hanno appurato che l’uso virtuoso del congiuntivo sopravanza quello sci­voloso. Gli apocalittici puristi non ci crederanno ma anche nel varie­gato mondo delle canzonette il congiuntivo da decenni tiene bot­ta
all’invadenza dell’indicativo. Da quel E se domani io non potessi ri­vedere te, mettiamo il caso che ti sentissi stanco di me, alla recentis­sima Bruci la città e crolli il gratta­cielo… esplodano le stelle, esploda tutto quanto... portata al successo da Irene Grandi. Certo fa più ru­more uno svarione che suona co­me un gesso scricchiolante sulla la­vagna, rispetto alle centinaia e cen­tinaia di congiuntivi azzeccati. Ma tant’è. Gli indicativi profusi a pie­ne mani da Aldo Biscardi – Voglio provare a sentire Varriale. Se lo chia­mo io, può darsi che viene oppure Oggi credo che l’Udinese ha fatto u­na bella partita – spiccano. Così gli strafalcioni che dilagano tra i pro­tagonisti dei campi di calcio. E fi­niscono per mettere la sordina al buon italiano che persino un Ho­mer Simpson onora. Il punto è un altro: come i medici che conoscono a fondo le defaillances del corpo, i linguisti sanno che il congiuntivo è un terreno mi­nato, perciò si dichiarano indul­genti nei confronti di chi sbaglia. Non solo si inciampa perché il con­giuntivo è un modo è difficile da u­sare, ma è anche difficile stabilire quando e come lui – il modo della possibilità, della supposizione, del dubbio e della soggettività – può venire sostituito senza timore di sbagliare dall’indicativo, il modo della certezza. Tanto che persino mostri sacri come Dante, Boccac­cio e Ariosto si presero le loro bel­le licenze poetiche. Con una sfilza di quei vadi, facci, stassi e dassi che oggi al solo sentirli danno una stret­ta al cuore. Congiuntivi macchero­nici, geneticamente modificati che ci fanno sorridere soltanto se è la comicità di Totò o di Fantozzi a u­tilizzarli.
Allora, ragioniere, che fa batti? Chiedeva il miope Filini ini­ziando un’indimenticabile partita a tennis nella nebbia. Ma mi dà del tu? Ribatteva Fantozzi? No, no, di­cevo: batti lei! Spiegava Filini. Ah, congiuntivo… concludeva il ragio­niere.
Grandioso.
«Avvenire» del 1 ottobre 2009

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