Un’indagine rivela che nonostante strafalcioni consumati un po’ dappertutto, dalla scuola alla tv, è un modo verbale vivo e vegeto
di Rossana Sisti
Quello del ministro D’Onofrio, quando nel 1994 era all’Istruzione, sarà difficile da cancellare dalla memoria visto che lo strafalcione gli partì in diretta, durante un’intervista al Tg2, a proposito di una probabile soppressione dei licei dalla scuola italiana. «Vorrei che ne parliamo», gli scappò detto e lo scivolone gli fu fatale: il giorno dopo il ministro finì sbeffeggiato sulle prime pagine dei giornali e a nulla valse un tentativo di riparare il mal detto con una replica ardita. Finì per far peggio adducendo che «non è colpa mia se la prima persona plurale tanto dell’indicativo che del congiuntivo presente sono uguali: parliamo » . Che l’allora ministro sapesse maneggiare l’italiano è fuor di dubbio eppure il caso è emblematico di una specifica intolleranza: tra i tanti scivoloni linguistici in cui si può incorrere non c’è peggiore sfortuna, italianamente parlando, di imbroccare in «Fantozzi» un congiuntivo sbagliato. Lo scandalo è immediato, la sanzione sociale tagliente come una mannaia, tanto più se chi inciampa è in qualche modo scolarizzato, magari fa il ministro, l’assessore alla cultura, il manager d’azienda o il giornalista. Perché, sia chiaro, lo strafalcione è trasversale e tutt’altro che confinato alla cerchia di quanti nella vita non hanno studiato. Ma per costori ci mostriamo tolleranti e persino comprensivi, agli altri – fior di professionisti, quelli che si ritiene dovrebbero parlare italiano con disinvoltura e correttezza – non si perdona. Il congiuntivo sbagliato o mancato vale un marchio di infamia linguistica.
Parlare di congiuntivo comunque è di gran moda, denunciarne la scomparsa, come pure gridare alla decadenza della lingua ed elogiare i tempi in cui modi e tempi dei verbi non si sbagliavano. Dunque potrebbe sembrare la posizione di due bastian contrari quella che Valeria della Valle, linguista, e Giuseppe Patota, storico della lingua, sostengono in questa ricerca a quattro mani che già nel titolo Viva il congiuntivo (Sperling & Kupfer, 15 €) racchiude una divertente ambiguità linguistica: viva nel senso di evviva, come espressione di giubilo per quelle preziosissime sfumature che il congiuntivo regala alle nostre frasi; viva, in qualità di forma verbale esortativa: viva a lungo! Fuori dai luoghi comuni e dalle nostalgie di una purezza linguistica che non è mai esistita, fuori da ogni pregiudizio e dati alla mano, i due autori – da tempo una coppia professionalmente affiatata nel produrre manuali di scrittura e grammatiche ragionate – ci raccontano che il congiuntivo è vivo e vegeto. E che l’espansione dell’indicativo è dovuto alla pressione dell’italiano parlato, più rilassato e disinvolto di quello formale scritto, e non certo all’uso degli sms o all’influenza dei dialetti. Analizzando articoli di giornali, ore e ore di trasmissioni televisive e radiofoniche, rileggendo indagini che hanno preso in considerazione fumetti, fotoromanzi e romanzi rosa, il lessico dell’italiano parlato e persino i compiti dei ragazzi delle superiori, Della Valle e Patota hanno appurato che l’uso virtuoso del congiuntivo sopravanza quello scivoloso. Gli apocalittici puristi non ci crederanno ma anche nel variegato mondo delle canzonette il congiuntivo da decenni tiene botta all’invadenza dell’indicativo. Da quel E se domani io non potessi rivedere te, mettiamo il caso che ti sentissi stanco di me, alla recentissima Bruci la città e crolli il grattacielo… esplodano le stelle, esploda tutto quanto... portata al successo da Irene Grandi. Certo fa più rumore uno svarione che suona come un gesso scricchiolante sulla lavagna, rispetto alle centinaia e centinaia di congiuntivi azzeccati. Ma tant’è. Gli indicativi profusi a piene mani da Aldo Biscardi – Voglio provare a sentire Varriale. Se lo chiamo io, può darsi che viene oppure Oggi credo che l’Udinese ha fatto una bella partita – spiccano. Così gli strafalcioni che dilagano tra i protagonisti dei campi di calcio. E finiscono per mettere la sordina al buon italiano che persino un Homer Simpson onora. Il punto è un altro: come i medici che conoscono a fondo le defaillances del corpo, i linguisti sanno che il congiuntivo è un terreno minato, perciò si dichiarano indulgenti nei confronti di chi sbaglia. Non solo si inciampa perché il congiuntivo è un modo è difficile da usare, ma è anche difficile stabilire quando e come lui – il modo della possibilità, della supposizione, del dubbio e della soggettività – può venire sostituito senza timore di sbagliare dall’indicativo, il modo della certezza. Tanto che persino mostri sacri come Dante, Boccaccio e Ariosto si presero le loro belle licenze poetiche. Con una sfilza di quei vadi, facci, stassi e dassi che oggi al solo sentirli danno una stretta al cuore. Congiuntivi maccheronici, geneticamente modificati che ci fanno sorridere soltanto se è la comicità di Totò o di Fantozzi a utilizzarli.
Allora, ragioniere, che fa batti? Chiedeva il miope Filini iniziando un’indimenticabile partita a tennis nella nebbia. Ma mi dà del tu? Ribatteva Fantozzi? No, no, dicevo: batti lei! Spiegava Filini. Ah, congiuntivo… concludeva il ragioniere.
Grandioso.
Parlare di congiuntivo comunque è di gran moda, denunciarne la scomparsa, come pure gridare alla decadenza della lingua ed elogiare i tempi in cui modi e tempi dei verbi non si sbagliavano. Dunque potrebbe sembrare la posizione di due bastian contrari quella che Valeria della Valle, linguista, e Giuseppe Patota, storico della lingua, sostengono in questa ricerca a quattro mani che già nel titolo Viva il congiuntivo (Sperling & Kupfer, 15 €) racchiude una divertente ambiguità linguistica: viva nel senso di evviva, come espressione di giubilo per quelle preziosissime sfumature che il congiuntivo regala alle nostre frasi; viva, in qualità di forma verbale esortativa: viva a lungo! Fuori dai luoghi comuni e dalle nostalgie di una purezza linguistica che non è mai esistita, fuori da ogni pregiudizio e dati alla mano, i due autori – da tempo una coppia professionalmente affiatata nel produrre manuali di scrittura e grammatiche ragionate – ci raccontano che il congiuntivo è vivo e vegeto. E che l’espansione dell’indicativo è dovuto alla pressione dell’italiano parlato, più rilassato e disinvolto di quello formale scritto, e non certo all’uso degli sms o all’influenza dei dialetti. Analizzando articoli di giornali, ore e ore di trasmissioni televisive e radiofoniche, rileggendo indagini che hanno preso in considerazione fumetti, fotoromanzi e romanzi rosa, il lessico dell’italiano parlato e persino i compiti dei ragazzi delle superiori, Della Valle e Patota hanno appurato che l’uso virtuoso del congiuntivo sopravanza quello scivoloso. Gli apocalittici puristi non ci crederanno ma anche nel variegato mondo delle canzonette il congiuntivo da decenni tiene botta all’invadenza dell’indicativo. Da quel E se domani io non potessi rivedere te, mettiamo il caso che ti sentissi stanco di me, alla recentissima Bruci la città e crolli il grattacielo… esplodano le stelle, esploda tutto quanto... portata al successo da Irene Grandi. Certo fa più rumore uno svarione che suona come un gesso scricchiolante sulla lavagna, rispetto alle centinaia e centinaia di congiuntivi azzeccati. Ma tant’è. Gli indicativi profusi a piene mani da Aldo Biscardi – Voglio provare a sentire Varriale. Se lo chiamo io, può darsi che viene oppure Oggi credo che l’Udinese ha fatto una bella partita – spiccano. Così gli strafalcioni che dilagano tra i protagonisti dei campi di calcio. E finiscono per mettere la sordina al buon italiano che persino un Homer Simpson onora. Il punto è un altro: come i medici che conoscono a fondo le defaillances del corpo, i linguisti sanno che il congiuntivo è un terreno minato, perciò si dichiarano indulgenti nei confronti di chi sbaglia. Non solo si inciampa perché il congiuntivo è un modo è difficile da usare, ma è anche difficile stabilire quando e come lui – il modo della possibilità, della supposizione, del dubbio e della soggettività – può venire sostituito senza timore di sbagliare dall’indicativo, il modo della certezza. Tanto che persino mostri sacri come Dante, Boccaccio e Ariosto si presero le loro belle licenze poetiche. Con una sfilza di quei vadi, facci, stassi e dassi che oggi al solo sentirli danno una stretta al cuore. Congiuntivi maccheronici, geneticamente modificati che ci fanno sorridere soltanto se è la comicità di Totò o di Fantozzi a utilizzarli.
Allora, ragioniere, che fa batti? Chiedeva il miope Filini iniziando un’indimenticabile partita a tennis nella nebbia. Ma mi dà del tu? Ribatteva Fantozzi? No, no, dicevo: batti lei! Spiegava Filini. Ah, congiuntivo… concludeva il ragioniere.
Grandioso.
«Avvenire» del 1 ottobre 2009
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