La legge sul fine vita
di Francesco D'Agostino
Il rinvio a dicembre della discussione alla Camera della legge sul 'fine vita' può avere diverse motivazioni 'politiche', tutte allarmanti (ed alcune anche subdole), ma ha una sola possibile spiegazione 'bioetica': a molti, a troppi (sia parlamentari che influenti opinionisti) la sostanza specifica della questione evidentemente non è chiara. È solo così che si possono capire gli appelli contro l’iper-regolamentazione giuridica della fine vita e le martellanti esortazioni contro ogni intrusione dello Stato in quella delicatissima 'zona grigia', all’interno della quale sarebbero legittimati a muoversi, con la massima discrezionalità, solo medici e familiari. Ciò che, in buona sostanza, si chiede ormai da tante parti è che la legge sul fine vita, se proprio la si vuole fare, sia il più possibile 'liberale'… Da tempo sostengo, ampiamente inascoltato, che il liberalismo è un prezioso principio politico- culturale (e probabilmente anche economico- sociale), che è però illusorio sperare di poter applicare ai problemi bioetici che, nella maggior parte dei casi, vanno affrontati e risolti in altro modo, applicando il principio ippocratico della difesa della vita e non facendo appello alla 'libertà' o all’'autodeterminazione' del malato (soggetto debole, influenzabile, il più delle volte scarsamente informato e che, soprattutto nelle situazioni di fine vita, ha una sola esigenza prioritaria, quella di non essere abbandonato).
È giusto approvare una legge che imponga al medico il dovere di tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, sottoscritte in data certa da soggetti competenti e informati e purché esplicitamente prive di indicazioni eutanasiche? È più che giusto, anzi è doveroso ed urgente, almeno per escludere che possano essere emanate dalla magistratura altre sentenze, che, come quelle relative al caso Englaro, hanno riconosciuto valide generiche dichiarazioni orali, di data incerta, formulate da persone certamente poco informate e dal contenuto almeno potenzialmente eutanasico. È altresì essenziale che questa legge non lasci dubbi sulla non vincolatività di queste dichiarazioni per il medico, lasciandogli la libertà di seguirle o di non seguirle, non però in base al suo arbitrio o alle indicazioni che possono arrivargli dai familiari o dai fiduciari del paziente (indicazioni che potrebbero avere motivazioni anche molto ambigue), ma a seguito di una rigorosa valutazione, caso per caso, della fondatezza di quelle dichiarazioni, in ordine alla loro completezza e coerenza, alle possibilità terapeutiche reali che sono a disposizione in ciascun singolo caso e al dovere di evitare ogni forma di accanimento. In altri termini, quello che la legge può, e nella situazione attuale, deve fare è ribadire due principi ippocratici fondamentali: 1) la vita non è disponibile da parte di nessuno, nemmeno da parte del paziente (altrimenti dovremmo legittimare l’aiuto al suicidio, anche a carico di soggetti 'sani'!) e 2) il medico ha un solo, esclusivo dovere, quello di agire come terapeuta a favore della vita (e l’accanimento non ha nulla a che vedere con una terapia!), con l’unico limite di dover rispettare l’eventuale decisione del paziente di sottrarsi alle cure. Alimentazione e idratazione non sono cure: lo dimostra il fatto che se si cessa di alimentare il malato, questi non muore per il progredire della sua patologia, ma perché gli viene sottratto un sostegno vitale fondamentale (è ciò che comunemente si intende dire, in modo scientificamente impreciso, ma simbolicamente perfetto, quando si afferma che Eluana Englaro è morta 'di fame e di sete').
Ecco perché non si può, sinceramente, parlare di iper-regolamentazione giuridica a carico di una legge, come quella approvata al Senato, che, pur con tutte le sue imperfezioni, garantisce comunque questi due principi, in sé e per sé irrinunciabili, contro ogni tentativo di manipolazione (proveniente da qualunque parte: dai medici, dai familiari, dai magistrati). Chi continua a preoccuparsi di un’ipertrofia legislativa in bioetica e a insistere sulla richiesta di una legislazione 'liberale', rispettosa di tutte le 'zone grigie' possibili e immaginabili, non si rende evidentemente conto che non è questa la vera posta in gioco, ma l’abbandono del modello ippocratico della medicina, il modello nel quale la difesa della vita e il rispetto del malato sono indissolubilmente congiunti. Se questa fosse l’autentica, subdola ragione che motiva l’operato di quanti puntano a rinviare (o, addirittura, ad affossare) la discussione della legge sul fine vita alla Camera, dovremmo preoccuparcene tutti e moltissimo.
È giusto approvare una legge che imponga al medico il dovere di tener conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, sottoscritte in data certa da soggetti competenti e informati e purché esplicitamente prive di indicazioni eutanasiche? È più che giusto, anzi è doveroso ed urgente, almeno per escludere che possano essere emanate dalla magistratura altre sentenze, che, come quelle relative al caso Englaro, hanno riconosciuto valide generiche dichiarazioni orali, di data incerta, formulate da persone certamente poco informate e dal contenuto almeno potenzialmente eutanasico. È altresì essenziale che questa legge non lasci dubbi sulla non vincolatività di queste dichiarazioni per il medico, lasciandogli la libertà di seguirle o di non seguirle, non però in base al suo arbitrio o alle indicazioni che possono arrivargli dai familiari o dai fiduciari del paziente (indicazioni che potrebbero avere motivazioni anche molto ambigue), ma a seguito di una rigorosa valutazione, caso per caso, della fondatezza di quelle dichiarazioni, in ordine alla loro completezza e coerenza, alle possibilità terapeutiche reali che sono a disposizione in ciascun singolo caso e al dovere di evitare ogni forma di accanimento. In altri termini, quello che la legge può, e nella situazione attuale, deve fare è ribadire due principi ippocratici fondamentali: 1) la vita non è disponibile da parte di nessuno, nemmeno da parte del paziente (altrimenti dovremmo legittimare l’aiuto al suicidio, anche a carico di soggetti 'sani'!) e 2) il medico ha un solo, esclusivo dovere, quello di agire come terapeuta a favore della vita (e l’accanimento non ha nulla a che vedere con una terapia!), con l’unico limite di dover rispettare l’eventuale decisione del paziente di sottrarsi alle cure. Alimentazione e idratazione non sono cure: lo dimostra il fatto che se si cessa di alimentare il malato, questi non muore per il progredire della sua patologia, ma perché gli viene sottratto un sostegno vitale fondamentale (è ciò che comunemente si intende dire, in modo scientificamente impreciso, ma simbolicamente perfetto, quando si afferma che Eluana Englaro è morta 'di fame e di sete').
Ecco perché non si può, sinceramente, parlare di iper-regolamentazione giuridica a carico di una legge, come quella approvata al Senato, che, pur con tutte le sue imperfezioni, garantisce comunque questi due principi, in sé e per sé irrinunciabili, contro ogni tentativo di manipolazione (proveniente da qualunque parte: dai medici, dai familiari, dai magistrati). Chi continua a preoccuparsi di un’ipertrofia legislativa in bioetica e a insistere sulla richiesta di una legislazione 'liberale', rispettosa di tutte le 'zone grigie' possibili e immaginabili, non si rende evidentemente conto che non è questa la vera posta in gioco, ma l’abbandono del modello ippocratico della medicina, il modello nel quale la difesa della vita e il rispetto del malato sono indissolubilmente congiunti. Se questa fosse l’autentica, subdola ragione che motiva l’operato di quanti puntano a rinviare (o, addirittura, ad affossare) la discussione della legge sul fine vita alla Camera, dovremmo preoccuparcene tutti e moltissimo.
«Avvenire» del 1 ottobre 2009
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