di Franco La Cecla
Dove sei? È la prima domanda che si fa quando si chiama qualcuno sul suo cellulare. Già, perché da quando abbiamo reso mobile la nostra comunicazione, non c’è più una residenza che corrisponda al nostro parlare per telefono Non siamo direttamente rintracciabili, anche se strumenti sofisticati consentono proprio grazie al telefonino di rintracciarci dovunque. Questa mobilità estrema ha come corollario qualcosa di più perturbante: nemmeno noi sappiamo spesso dove siamo. Il nostro 'qui' non corrisponde ad una conoscenza, ma ad una situazione spaziale anonima. Per questo sono nati i dispositivi che trovate sulle automobili, sui taxi e sugli stessi telefonini. Questi consentono di sapere come arrivare dove volete andare, ma soprattutto di sapere dove siete. Una competenza che in passato era affidata alla conoscenza locale, o allo sporgersi dal finestrino per chiedere indicazioni, viene inscatolata in uno strumento che vi dice tutto o quasi tutto di un posto e spesso ve lo dice con una voce. C’è nel ricorso a questo pilota semi-automatico un’antica evitazione di una vergogna.
Un po’ ci si vergognava di chiedere indicazioni, e soprattutto era un modo di affidarsi ai locali. «Giri a sinistra, poi continui dritto, giri intorno a quel monumento, troverà quel tal angolo e poi deve chiedere di nuovo».
Orientarsi significava affidarsi, chiedere quasi il permesso ai locali per introdursi nel loro mondo. Un vecchio proverbio siciliano diceva: «Case non se ne insegnano», affermando il diritto dei locali a non mostrare agli estranei le mappe dell’insediamento, i trucchi, le scorciatoie, gli indirizzi. Orientarsi era un modo di venire lentamente a conoscenza delle forme di orientamento locale: quel dire vada 'giù', o vada 'su' che spesso non corrisponde a salite o discese ma alla mappa mentale degli abitanti per cui 'su' sono certi quartieri e 'giù' magari il mare o il fiume. Il TomTom elimina questa forma di permesso per accedere alla conoscenza altrui, in realtà la sostituisce ad una conoscenza che non diventa più vostra ma rimane nella scatola. Più vi affidate alla scatola nera e meno accumulate esperienza di un luogo. E allora perché si preferisce questo tipo di orientamento all’altro, più ricco, più personale? Per un’atavica, inconfessata paura di perdersi. La prima volta che vidi un sistema TomTom in un’auto mi trovavo nel 1983 in Bassa California e su una spiaggia deserta c’era un’auto di un americano, che mi mostrava con orgoglio questo strumento per non perdersi nel deserto. Alla base di queste scatoline oggi a poco prezzo c’è l’idea permanente del deserto e del lungo viaggio, di un viaggio in cui non avete gli strumenti della lingua, come spesso accade appunto ai nordamericani. Invece di chiedere in spagnolo ad un campesino dove andare, meglio mantenere il finestrino chiuso e affidarsi al satellite. Un altro proverbio siciliano dice « Cu ave a linggua passa u mari », chi ha lingua passa il mare, nel senso letterale che chi sa comunicare può andare senza timore dappertutto. Il satellitare nega questa possibilità e vi rimanda alla vostra solitudine autosufficiente. E soprattutto demolisce una forma di competenza, quella per cui i tassisti di una città ne erano i meglio conoscitori. Oggi chiunque, anche se arrivato da un giorno a Milano, può fare il tassista, basta che accenda il satellitare. Per alcuni versi è meglio perché così siete sicuri in quanto cliente che qualcosa vi porterà dove dovete andare, per un altro siete affidati alle incognite non sempre perfette di una macchina e soprattutto la vostra ignoranza dei luoghi si raddoppia in quella del tassista.
Un po’ ci si vergognava di chiedere indicazioni, e soprattutto era un modo di affidarsi ai locali. «Giri a sinistra, poi continui dritto, giri intorno a quel monumento, troverà quel tal angolo e poi deve chiedere di nuovo».
Orientarsi significava affidarsi, chiedere quasi il permesso ai locali per introdursi nel loro mondo. Un vecchio proverbio siciliano diceva: «Case non se ne insegnano», affermando il diritto dei locali a non mostrare agli estranei le mappe dell’insediamento, i trucchi, le scorciatoie, gli indirizzi. Orientarsi era un modo di venire lentamente a conoscenza delle forme di orientamento locale: quel dire vada 'giù', o vada 'su' che spesso non corrisponde a salite o discese ma alla mappa mentale degli abitanti per cui 'su' sono certi quartieri e 'giù' magari il mare o il fiume. Il TomTom elimina questa forma di permesso per accedere alla conoscenza altrui, in realtà la sostituisce ad una conoscenza che non diventa più vostra ma rimane nella scatola. Più vi affidate alla scatola nera e meno accumulate esperienza di un luogo. E allora perché si preferisce questo tipo di orientamento all’altro, più ricco, più personale? Per un’atavica, inconfessata paura di perdersi. La prima volta che vidi un sistema TomTom in un’auto mi trovavo nel 1983 in Bassa California e su una spiaggia deserta c’era un’auto di un americano, che mi mostrava con orgoglio questo strumento per non perdersi nel deserto. Alla base di queste scatoline oggi a poco prezzo c’è l’idea permanente del deserto e del lungo viaggio, di un viaggio in cui non avete gli strumenti della lingua, come spesso accade appunto ai nordamericani. Invece di chiedere in spagnolo ad un campesino dove andare, meglio mantenere il finestrino chiuso e affidarsi al satellite. Un altro proverbio siciliano dice « Cu ave a linggua passa u mari », chi ha lingua passa il mare, nel senso letterale che chi sa comunicare può andare senza timore dappertutto. Il satellitare nega questa possibilità e vi rimanda alla vostra solitudine autosufficiente. E soprattutto demolisce una forma di competenza, quella per cui i tassisti di una città ne erano i meglio conoscitori. Oggi chiunque, anche se arrivato da un giorno a Milano, può fare il tassista, basta che accenda il satellitare. Per alcuni versi è meglio perché così siete sicuri in quanto cliente che qualcosa vi porterà dove dovete andare, per un altro siete affidati alle incognite non sempre perfette di una macchina e soprattutto la vostra ignoranza dei luoghi si raddoppia in quella del tassista.
«Avvenire» del 4 ottobre 2009
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