L'esperienza del Novecento insegna che vittimismo e orgoglio ostentato di solito non portano alla grande letteratura
di Alessandro Piperno
Ebraismo, omosessualità, ateismo: i tormenti dell'anima generano capolavori. Quando è tempo di mettersi a scrivere seriamente, addio sentimentalismi: nessun Jewish-pride, nessun Gay-pride. Trovo più commovente il giudaismo tragico di Kafka e Schulz rispetto a quello della nostra epoca
Togliete a uno scrittore la vergogna che prova per sé e per la propria condizione e cancellerete lo scrittore. Sarà mica per questo che un gigante come Proust evita ogni vittimismo ebraico e omosessuale. No, non c'è ombra di Jewish-pride e di Gay-pride nel fatato mondo della Recherche. Forse perché Proust è così intelligente da intuire che tali orgogli vanno coltivati, per così dire, implicitamente. Sulla pagina è meglio nascondere o addirittura flagellare l'ebreo e l'omosessuale che porti in te. Una scelta moralmente ambigua, umanamente vigliacca, resa ancor più incomprensibile dall' empatico fervore con cui Proust da ragazzo aveva seguito l'affaire Dreyfus e il caso Oscar Wilde. Una scelta che André Gide gli rimproverò aspramente. Ma, allo stesso tempo, una scelta dal clamoroso e impareggiabile impatto estetico. Che posso farci se nella scala del buon gusto letterario l'orgoglio ebraico-omosessuale non funziona? Se artisticamente parlando rimpiango l'ebraismo e l'omosessualità vecchio-stampo? Se trovo infinitamente più commovente il giudaismo tragico di Kafka e Schulz rispetto a quello postmoderno e esibizionista della nostra epoca (in cui, tra l'altro, mi capita di indulgere)? E se alla riscossa gay di alcuni eccellenti scrittori del Secondo Dopoguerra preferisco l'omosessualità presunta, non vissuta e drammaticamente dissimulata di Henry James, Thomas Mann, Carlo Emilio Gadda, solo per fare gli esempi più eminenti? Mica è colpa mia se la salutare e civile emancipazione dei costumi non sempre equivale a un progresso artistico. Ebraismo e omosessualità insomma. Connubio eccitante, e gran brutto affare! Su cui mi arrovellavo leggendo un piccolo romanzo di qualche anno fa, intitolato Il mio amato, dello scrittore israeliano Yehoshua Bar-Yosef, misericordiosamente ripescato e mandato in libreria dall' intrepida casa editrice di Firenze La Giuntina. La scena del romanzo si svolge a Meah Shearim, il quartiere di Gerusalemme pittorescamente sovraffollato di ebrei ortodossi. Un posto che ti fa l' effetto di un film in costume: un reperto archeologico della vecchia Europa Orientale incastonato nel polveroso ventre di uno dei Paesi più contraddittoriamente all' avanguardia del pianeta. È lì che vive Asherke, protagonista-narratore di questa storia. Un pover'uomo che per campare fa lo scriba. Sebbene il ritratto che Asherke offre di sé sia di schietta marca dostoevskiana, c' è una nota asettica nella sua voce che ricorda Mersault (il celebre straniero di Camus). «Da che ho raggiunto l' età della ragione, in me alberga un rancore misto a compassione per papà, che si umilia davanti a tutti». Con la madre è ancora più caustico: «Per lei provavo ribrezzo e paura». Per non dire del commento sulla prima notte di nozze: «C'era un dettaglio che m'infastidiva: l'odore delle sue secrezioni». E del rapporto con i due figli: «La verità è che, a causa della doppiezza e delle falsità della mia vita si è creato un abisso invisibile tra me e i miei figli». A quali doppiezze, a quali falsità, a quali abissi allude? Beh, diciamo che la comunità in cui Asherke è intrappolato sin dalla nascita - che ha fatto dell' anacronistico decoro e dell' immutabilità dei costumi una specie di vessillo - potrebbe frantumarsi venendo a sapere che l'ammirato scriba è ateo (onnivoro lettore di libri proibiti), e pederasta. Bar-Yosef è chirurgico nel mostrarci la vita di Meah Shearim in cui la religione nel caso migliore è prassi e routine. E nel peggiore uno snervato esibizionista estetismo. Ma, allo stesso tempo, tale ipocrisia fondamentalista offre a questi ortodossi la merce più preziosa in commercio, preclusa alla maggior parte di noi: l' illusione salvifica che la vita abbia un senso. E che tale senso si manifesti nell' adempimento di certe regole pratiche, assai care al Padreterno. Ecco perché scoprirsi ateo lo lascia attonito ma non così sconvolto. E va bene, Dio non c'è, ma le regole da Lui impartite, beh quelle resistono, basta solo rispettarle. Devastante, invece, si mostra la tardiva rivelazione della propria inclinazione sessuale. Desiderare ragazzini a Meah Shearim è una mostruosità inaccettabile persino per il nostro scriba. Il quale, sebbene provvisto dell' apertura mentale dei miscredenti, è travolto dal senso del peccato in lui miracolosamente sopravvissuto alla scomparsa di Dio. (Aveva ragione Baudelaire: la religione ti condiziona soprattutto quando non credi). «Mi sento come afflitto da una lebbra invisibile» confessa Asherke quando scopre di desiderare il fratello quattordicenne della moglie con una carnalità scorticante e disperata. E insomma eccoci al punto di partenza. Ancora ebraismo e omosessualità. Per una volta non alleati. Non due facce di una stessa perversione morale, né vittime di un analogo pregiudizio. Stavolta l'ebraismo è la Legge e l'omosessualità la più orrenda infrazione alla Legge. Il conflitto è biblicamente insanabile. E Asherke lo sa e lo accetta come tale: «Mi piace pensare all'oggetto del mio amore e non meno mi piace pensare agli ostacoli posti lungo il cammino: e più gli ostacoli mi fanno disperare più profondo diventa il piacere dei tormenti e più acuto il senso della punizione che mi infliggo». Insomma la sua risposta è la sola che gli hanno insegnato: il misticismo. E la cosa geniale di questo piccolo romanzo è che Dio si manifesta sotto forma di una sublime castissima pederastia mentre la religione viene relegata al ruolo del prosaico annichilente ostacolo indispensabile a ogni vera tragedia. Quelle tragedie che grazie a Dio (o grazie al demonio?) la nostra epoca ha abolito.
«Corriere della Sera» del 1 agosto 2009
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