Vent’anni dopo, la protesta resta una questione irrisolta di cui a Pechino si deve tacere: parla Philip J. Cunningham
di Riccardo Michelucci
Vent’anni possono essere sufficienti per dimenticare tutto. Lo spirito della grande mobilitazione studentesca per la democrazia che fu repressa nel sangue in piazza Tienanmen rischia di essere inghiottito nell’oblio e dimenticato anche dai libri di storia cinesi. Per evitarlo, e per commemorare il coraggio di coloro che vi presero parte, il ricercatore statunitense Philip J. Cunningham ha scritto Tienanmen Moon. Inside the Chinese Student Uprising in 1989, un libro importante, poiché l’autore ha vissuto quegli eventi in prima persona. «Non si tratta dell’ennesimo racconto sul massacro degli studenti, piuttosto della storia di quel formidabile movimento popolare che ha conquistato le menti e i cuori dei pechinesi, e gran parte del resto della nazione nella primavera del 1989».
Vent’anni fa Cunningham era solo un giovane straniero che studiava all’università di Pechino quando, senza volerlo, si trovò a faccia a faccia con la storia, divenendo testimone di uno dei fatti più importanti e drammatici del XX secolo. In quelle settimane marciò con gli studenti cinesi ed ebbe modo di osservare dall’interno, nei campus di Pechino, la nascita di una gigantesca protesta pacifica, che il governo cinese avrebbe poi schiacciato facendo uccidere centinaia di persone.
Oggi non esita a definire «straordinari, unici e indimenticabili» i mesi che precedettero la strage. «Il modo crudele e maldestro in cui è stata soffocata la rivolta - spiega - ha rappresentato un grave battuta d’arresto per la Cina. Ma quelle settimane ispirarono la mobilitazione di milioni di persone dietro agli striscioni di un movimento estremamente pacifico e affiatato. Che purtroppo è stato poi oscurato proprio da quanto è accaduto dopo».
Cunningham, nel suo libro lei esclude categoricamente che gli studenti siano stati manipolati dall’esterno come ha sempre affermato il governo di Pechino. Crede che la protesta sia stata quindi totalmente spontanea?
«Fu sicuramente molto spontanea, anche se non del tutto. Fin dall’inizio molte fazioni politiche hanno fatto a gara per cercare d’influenzarla. Alla fine, anche i servizi segreti occidentali che sembrava fossero stati colti impreparati come tutti noi, risultarono coinvolti, sebbene a quanto mi è dato sapere, la maggior parte di essi cercò semplicemente di aiutare gli attivisti più a rischio a scappare all’estero. I leader studenteschi erano degli individui assai difficili da inquadrare, considerevolmente più ambiziosi ed egocentrici della media dei partecipanti alla protesta. Ma in base a quanto ho visto posso affermare che la maggioranza assoluta dei manifestanti era davvero spontanea, animata da un misto d’idealismo, curiosità e desiderio di esprimere sentimenti sinceri, oltre a un pizzico d’avventura».
Dove si trovava esattamente in quei tragici giorni di giugno di vent’anni fa? «Ho frequentato la piazza tutti i giorni, per un mese intero. Ed ero lì la notte del 3 e nelle prime ore del 4 giugno, quando arrivò l’esercito con i cannoni e i carri armati».
Cosa fece nei giorni successivi al massacro? «Ho dato rifugio ad alcuni attivisti studenteschi e ho messo la mia stanza d’albergo a disposizione di una troupe televisiva della Bbc; ho aiutato a portare di nascosto delle videocassette fuori dall’albergo e poi fuori dal paese.
Poi mi sono messo in viaggio verso Hong Kong con la Bbc e ho lavorato a un documentario televisivo che fu mandato in onda alcune settimane dopo. Infine ho lavorato insieme al conduttore americano Ted Koppel a un documentario più approfondito sullo stesso argomento».
Da allora lei ha continuato a frequentare la Cina e ha vissuto a lungo in Asia. Cosa pensano adesso i cinesi di quei giorni? «Per loro Tienanmen è e resta un problema irrisolto del quale non si può parlare. Invece è una vicenda di cui dovremmo occuparci non ogni anno od ogni decennio, ma ogni quindici giorni, e farlo prima possibile.
Eppure, nonostante i tentativi di rimozione, si tratta di una vicenda che fa parte ormai della vita stessa dei pechinesi, oltre a essere un momento importante nella storia della loro città. Eventi simili di minore portata si sono verificati in molte altre città. Ma in generale, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni, non c’è un’idea chiara su quanto sia realmente accaduto».
Perché ritiene che sia importante per la Cina mantenere viva la memoria del 4 giugno? «Oggi c’è la tendenza a girare intorno al problema - che per i media è ancora un tabù - e spesso si assiste a una discussione alquanto artificiosa e maldestra sull’importanza della stabilità, per spiegare i successi economici della Cina odierna, presumendo che siano stati possibili proprio grazie ad essa. Trovo che questa spiegazione sia assai poco convincente, poiché anche la verità e la riconciliazione portano stabilità, e probabilmente una stabilità più profonda e durevole di quella portata da una folle corsa verso il successo materiale a discapito di tutto il resto. La Cina dovrebbe sicuramente indirizzare meglio il lato umanitario e spirituale del suo grande sviluppo».
Vent’anni fa Cunningham era solo un giovane straniero che studiava all’università di Pechino quando, senza volerlo, si trovò a faccia a faccia con la storia, divenendo testimone di uno dei fatti più importanti e drammatici del XX secolo. In quelle settimane marciò con gli studenti cinesi ed ebbe modo di osservare dall’interno, nei campus di Pechino, la nascita di una gigantesca protesta pacifica, che il governo cinese avrebbe poi schiacciato facendo uccidere centinaia di persone.
Oggi non esita a definire «straordinari, unici e indimenticabili» i mesi che precedettero la strage. «Il modo crudele e maldestro in cui è stata soffocata la rivolta - spiega - ha rappresentato un grave battuta d’arresto per la Cina. Ma quelle settimane ispirarono la mobilitazione di milioni di persone dietro agli striscioni di un movimento estremamente pacifico e affiatato. Che purtroppo è stato poi oscurato proprio da quanto è accaduto dopo».
Cunningham, nel suo libro lei esclude categoricamente che gli studenti siano stati manipolati dall’esterno come ha sempre affermato il governo di Pechino. Crede che la protesta sia stata quindi totalmente spontanea?
«Fu sicuramente molto spontanea, anche se non del tutto. Fin dall’inizio molte fazioni politiche hanno fatto a gara per cercare d’influenzarla. Alla fine, anche i servizi segreti occidentali che sembrava fossero stati colti impreparati come tutti noi, risultarono coinvolti, sebbene a quanto mi è dato sapere, la maggior parte di essi cercò semplicemente di aiutare gli attivisti più a rischio a scappare all’estero. I leader studenteschi erano degli individui assai difficili da inquadrare, considerevolmente più ambiziosi ed egocentrici della media dei partecipanti alla protesta. Ma in base a quanto ho visto posso affermare che la maggioranza assoluta dei manifestanti era davvero spontanea, animata da un misto d’idealismo, curiosità e desiderio di esprimere sentimenti sinceri, oltre a un pizzico d’avventura».
Dove si trovava esattamente in quei tragici giorni di giugno di vent’anni fa? «Ho frequentato la piazza tutti i giorni, per un mese intero. Ed ero lì la notte del 3 e nelle prime ore del 4 giugno, quando arrivò l’esercito con i cannoni e i carri armati».
Cosa fece nei giorni successivi al massacro? «Ho dato rifugio ad alcuni attivisti studenteschi e ho messo la mia stanza d’albergo a disposizione di una troupe televisiva della Bbc; ho aiutato a portare di nascosto delle videocassette fuori dall’albergo e poi fuori dal paese.
Poi mi sono messo in viaggio verso Hong Kong con la Bbc e ho lavorato a un documentario televisivo che fu mandato in onda alcune settimane dopo. Infine ho lavorato insieme al conduttore americano Ted Koppel a un documentario più approfondito sullo stesso argomento».
Da allora lei ha continuato a frequentare la Cina e ha vissuto a lungo in Asia. Cosa pensano adesso i cinesi di quei giorni? «Per loro Tienanmen è e resta un problema irrisolto del quale non si può parlare. Invece è una vicenda di cui dovremmo occuparci non ogni anno od ogni decennio, ma ogni quindici giorni, e farlo prima possibile.
Eppure, nonostante i tentativi di rimozione, si tratta di una vicenda che fa parte ormai della vita stessa dei pechinesi, oltre a essere un momento importante nella storia della loro città. Eventi simili di minore portata si sono verificati in molte altre città. Ma in generale, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni, non c’è un’idea chiara su quanto sia realmente accaduto».
Perché ritiene che sia importante per la Cina mantenere viva la memoria del 4 giugno? «Oggi c’è la tendenza a girare intorno al problema - che per i media è ancora un tabù - e spesso si assiste a una discussione alquanto artificiosa e maldestra sull’importanza della stabilità, per spiegare i successi economici della Cina odierna, presumendo che siano stati possibili proprio grazie ad essa. Trovo che questa spiegazione sia assai poco convincente, poiché anche la verità e la riconciliazione portano stabilità, e probabilmente una stabilità più profonda e durevole di quella portata da una folle corsa verso il successo materiale a discapito di tutto il resto. La Cina dovrebbe sicuramente indirizzare meglio il lato umanitario e spirituale del suo grande sviluppo».
«Avvenire» del 31 ottobre 2009
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