30 ottobre 2009

La civiltà del doping

Parla lo scrittore Ferdinando Camon, che in un volume racconta i suoi incontri con gli studenti nelle scuole contro la droga
di Lorenzo Fazzini
Ferdinando Camon è uno scrittore molto noto, i suoi libri sono tradotti in 22 lingue; nel 1978 ha vinto il Premio Strega con Un altare per la madre, cui sono seguiti numerosi romanzi che hanno riscontrato il successo di critica e pubblico. Ma se del suo lavoro intellettuale - scrive commenti anche su questo giornale, così come per Le Monde - molto si sa, Camon ora svela in Figli perduti. La droga discussa con i ragazzi (Garzanti, pagine 96, euro 12) il suo quasi trentennale impegno contro la piaga della tossicodipendenza.
Dai primi anni Ottanta gira le scuole, le realtà giovanili, perfino le sale da ballo, per capire, allertare, dialogare sul rischio di cadere nella trappola di quella che lui stesso, in questo appassionate volumetto, chiama «la civiltà del doping».
Professor Camon, lei incontra gli studenti nelle scuole per parlare di droga. Che impressione ne ha avuto?
«Negli incontri fatti - a breve sarò a Trento e a Treviso - non mi sono accorto di avere di fronte a me dei drogati, ma ragazzi attenti e svegli: sono stati bei colloqui. Ho visto i giovani drogati nelle discoteche i sabati sera oppure dove abito, la zona studentesca di Padova: è un 'inferno' della droga, dove ci sono drogati e spacciatori che dormono nei pianerottoli dei condomini, si infilano nei garage per mangiare e dormire. Tra gli studenti dell’università vi è un’alta quantità di drogati».
Da dove le deriva questo interesse per affrontare il dramma della tossicodipendenza?
«All’inizio degli anni Ottanta lavoravo al provveditorato degli studi di Padova con l’incarico dell’aggiornamento dei docenti, ai quali tenevo conferenze e corsi. Quando fu fondato il primo Cad (Centro antidroga) in Veneto, mi venne chiesto di rappresentare la scuola all’interno dell’equipe dove c’erano una psicologa, uno psichiatra e una persona che si occupava dell’aspetto farmacologico. Fu un lavoro utile. Essere scrittore ha a che fare con questo lavoro perché, per parlare di droga ai giovani, bisogna saper usare le parole. Con loro affronto quello che è stato scritto nei libri o raccontato nei film sulla droga. Di fronte al provveditorato dove lavoravo un tempo c’era una scritta: 'Si droga, vede'. A quel tempo la droga era vista come segno di protesta contro la società. Io, invece, voglio far capire ai ragazzi qualcosa di diverso: 'Chi si droga, muore'. Qualche tempo fa a Bassano, una delle zone con il picco più alto di utilizzo di ecstasy, i carabinieri hanno fatto una retata sequestrando oltre 2 mila pasticche di droga. L’ecstasy causa un lampo nel cervello e io rabbrividisco al pensiero che migliaia di giovani il sabato sera possano vivere qualcosa del genere».
Parlare di droga oggi non è più tanto di moda…
«Oggi la droga viene più praticata, se ne parla con minor frequenza, viene ideologizzata di meno rispetto al passato».
La Chiesa in Italia sta affrontando con grande interesse e partecipazione la 'sfida educativa' verso le nuove generazioni.
«I ragazzi non si drogano in quanto figli, ma in quanto ragazzi. Adottano il loro comportamento nei gruppi, non in famiglia, lo mutuano dall’amico o dall’amica a scuola, il sabato sera, in discoteca.
La formazione dei ragazzi oggi avviene in senso orizzontale, cioè tramite le compagnie, e non verticalmente, dalla famiglia. La correzione dei loro comportamenti deve avvenire lì mentre invece quando un giovane si droga la scuola, la società, la città restano indifferenti. Dove abito (Padova, ndr) ci sono tantissimi drogati, ma la città non se ne interessa, non sono state aperte comunità di recupero. I ragazzi vengono messi nelle mani dei Sert e degli psichiatri».
La cultura - il mondo degli intellettuali, dei mass media, … - ha delle responsabilità?
«La cultura non sta facendo la sua parte. Personalmente mi sento isolato. Io ho conosciuto dei drogati e le loro famiglie, ho partecipato ai funerali di persone drogate. Nella mia vita mi sono occupato di questo problema. Ma i giornali non se ne occupano, nemmeno la tv e l’informazione in generale. Forse solo il cinema (nel suo libro Camon affronta opere come I ragazzi dello zoo di Berlino, Pianoforte e Trainspotting, ndr) presenta questa problematica con autenticità e un’attenzione acuta. Il mondo della cultura ha la responsabilità di non far fronte a questo problema».
Al di là della messa in guardia dei pericoli della droga, qual è la miglior prevenzione per un giovane?
«Non c’è dubbio che un ragazzo con una fede solida non cade nella droga. La fede e la droga si escludono a vicenda. La fede è riempire di senso il mondo, la droga è svuotarlo di significato. Anche l’amore è un altro elemento decisivo: è difficile che pensi alla droga un giovane innamorato. Anche i ragazzi impegnati a scuola, quelli che hanno un traguardo da raggiungere, non rischiano di cadere. Invece sono a rischio quelli dei livelli medio-bassi. Lì la droga interviene come un riempitivo: i giovani ignorano il pericolo che la droga rappresenta. Poi, succede che è troppo tardi. Il rimedio è avvertirli, dire che il drogato è un uomo prostrato, fisicamente e psichicamente degradato. La scuola ha il compito di far provare agli studenti paura e schifo della droga».
«Ho parlato con centinaia di ragazzi delle superiori per renderli coscienti dei pericoli. Ma il mondo intellettuale in Italia tace e ha una responsabilità precisa nell’ignorare o sottovalutare il diffondersi della piaga. Nella mia città, Padova, interi condomini sono in mano agli spacciatori».
«Avvenire» del 30 ottobre 2009

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