Per l’economista Stefano Zamagni «va recuperata l’idea di 'economia civile': abbiamo visto che quella 'politica' non basta»
di Marco Girardo
«Un concetto elaborato in Italia già nel ’700 dall’abate Genovesi, poi abbandonato a favore delle tesi di Adam Smith Ma i suoi cardini – efficienza ed equità – non bastano, se non c’è l’apporto della reciprocità»
Quando «è grande la confusione sotto il cielo», mettere in fila i concetti e trovare un ordine alle parole non è uno sterile esercizio intellettuale, un divertissement fine a sé stesso. E sui cieli dell’economia, nell’ultimo anno, si è abbattuta la tempesta perfetta: tracollo della finanza e recessione globale nello spazio di dodici mesi. Mentre il mondo sta ancora contando i danni, le grandi potenze (G20) provano a rimodellare la fisionomia del 'turbo-capitalismo' drogato di finanza: più trasparenza, regole condivise e maggiore attenzione a una crescita sostenibile. Un tentativo di cambiare il paradigma dell’economia a cui Luigino Bruni e Stefano Zamagni – economista dell’Università Milano- Bicocca il primo, ordinario di Economia politica a Bologna il secondo – offrono un contributo 'squisitamente' italiano con il primo Dizionario di economia civile (Città Nuova, euro 65). Ripercorrendo in ordine alfabetico – dall’'a' di 'accountability' alla 'z' di 'Zappa Gino', riorganizzatore della dottrina contabile – un percorso teoretico che inizia a interessare le università americane.
Professor Zamagni, perché si tratta di un contributo 'squisitamente italiano'? «Perché l’'economia civile' è nata in casa nostra, è un’invenzione italiana. Il termine appare per la prima volta nel 1754, quando all’Università Federico II di Napoli Bartolomeo Intieri affida all’abate Antonio Genovesi, allievo di Giambattista Vico, la prima cattedra di Economia della storia. Una cattedra intitolata 'di Meccanica e di commercio' per la quale Genovesi impartiva Lezioni di economia civile, il titolo di un’opera che pubblicherà nel 1765».
Sfogliando i manuali di storia economica, italiani o stranieri, quell’appellativo 'civile' non si trova facilmente… «Perché l’espressione 'economia civile', alla fine del Settecento, è repentinamente scomparsa. Soppiantata dall’'economia politica' di Adam Smith. La sua opera più famosa, La ricchezza delle nazioni, del 1776, rappresenta non solo la svolta semantica ma anche il cambio di paradigma».
Che differenza c’è fra l’economia politica, il paradigma ancora oggi 'dominante', e l’economia civile? «L’economia politica si fonda su due capisaldi: il principio dello scambio di equivalenti, da cui deriva l’efficienza, e il principio di redistribuzione, per garantire l’equità. L’economia civile, a questi, aggiunge un terzo principio, quello che fa la differenza: la reciprocità. Serve a realizzare la fraternità. L’economia civile include quindi quella politica ma non viceversa. E il pensiero economico italiano – per fare un nome: Luigi Einaudi – ha sempre mantenuto quest’impostazione a differenza della tradizione anglosassone guidata dal motto ' business is business' ».
La dottrina sociale della Chiesa riprende però proprio questa 'tradizione italiana'.
«Esattamente. Non è contro il capitalismo o il mercato, come troppe volte erroneamente si sente dire. E non sceglie nemmeno il collettivismo. È piuttosto per il principio di fraternità teorizzato dall’economia civile e grazie al quale quest’ultima 'supera' l’economia politica. Nel senso che la integra e non certo che vi si oppone. La stessa Caritas in veritate – dove la parola capitalismo non compare – s’inserisce in questo alveo e, recuperando il concetto di economia civile, si presenta come rivoluzionaria nello scenario dell’attuale crisi economico-finanziaria, proprio nel momento in cui si è iniziato a ridiscutere i fondamenti stessi del capitalismo».
«Esattamente. Non è contro il capitalismo o il mercato, come troppe volte erroneamente si sente dire. E non sceglie nemmeno il collettivismo. È piuttosto per il principio di fraternità teorizzato dall’economia civile e grazie al quale quest’ultima 'supera' l’economia politica. Nel senso che la integra e non certo che vi si oppone. La stessa Caritas in veritate – dove la parola capitalismo non compare – s’inserisce in questo alveo e, recuperando il concetto di economia civile, si presenta come rivoluzionaria nello scenario dell’attuale crisi economico-finanziaria, proprio nel momento in cui si è iniziato a ridiscutere i fondamenti stessi del capitalismo».
Pensa che a Wall Street o ad Harvard o alla London School of Economics qualcuno sia disposto a rimettere in discussione l’impianto concettuale della teoria economica? «Circola in questi giorni fra gli economisti una raccolta di firme promossa il 3 settembre sul New York Times dal Nobel Paul Krugman. Il quale sostiene: una delle colpe della crisi attuale è proprio il paradigma dominante negli studi economici. Hanno firmato finora 1.550 economisti di tutto il mondo. Cosa significa? Che finalmente ci si interroga sui limiti del modello che ci governa dai tempi di Adam Smith».
E quali sono questi limiti? «Il primo è stato quello di separare il principio di reciprocità dagli altri due. Il secondo l’aver prodotto un modello di welfare ormai insostenibile, perché applica la redistribuzione in maniera anonima, facendo sentire la gente 'dipendente', 'assistita', e non applica invece la reciprocità che è sempre 'personale'. Infine perché dai tempi di Adam Smith mercato e democrazia sono separati. Oggi sappiamo che questo modello non funziona: l’economia civile funziona solo se inserita in un contesto democratico. La democrazia, cioè, non può essere declinata solo in politica ma anche in economia. E questo consente di dar sfogo alle forze creatrici della società civile come lo sono ad esempio il non profit e il mondo cooperativo. Sto lavorando alla 'teoria dell’impresa cooperativa' proprio per dare a questo mondo la stessa dignità dell’impresa di capitale».
Quando ha recuperato il concetto di economia civile? «All’inizio degli anni Novanta, trovando per caso il libro di Genovesi ».
Tracciamo l’albero genealogico dell’economia civile. «L’abate Genovesi, Giacinto Dragonetti, Ferdinando Galliani, Pietro Verri, Giandomenico Romagnosi e Cesare Beccaria per quel che riguarda le origini. In tempi più recenti Luigi Einaudi e la dottrina sociale della Chiesa».
E i padrini filosofici? «Agostino, anzitutto. I francescani, poi, con Bonaventura da Bagnoregio. La seconda Scolastica, soprattutto la Scuola di Salamanca. E poi Vico, maestro di Genovesi, il primo ad aver utilizzato la metafora della 'mano invisibile' per descrivere il mercato con cui sarebbe diventato famoso Adam Smith. Il personalismo, infine, con Mounier e Maritain ».
«Avvenire» del 3 ottobre 2009
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