Come rafforzare l'indipendenza
di Luigi Ferrarella
Nella cronaca giudiziaria sarebbe utile sbiancare la zona grigia anziché pompare ulteriori dosi di segreto
Meno segreti e più trasparenza. Chi fa giornalismo ha da chiedere non immunità per sè, ma più accesso diretto, trasparente ed effettivo alle fonti (persone attraverso le domande, e documenti attraverso la consultazione) dell’informazione sui vari settori. Un diritto da rivendicare non per utopia di anime belle, e neppure per pigra comodità professionale. Ma per convenienza: dei lettori. Per interesse dei cittadini. Gli unici a perdere al «mercato nero» della notizia. La «Borsa» dove vince sempre e comunque il più scorretto: il politico più bugiardo, l’imprenditore più furbo con i soldi degli altri, il magistrato più carrierista sulla pelle altrui. E, naturalmente, il giornalista più spregiudicato. Perde solo la collettività, portata ad accettare o a rifiutare riforme, a esprimere opzioni politiche e ad amministrare il proprio salvadanaio sulla base non della realtà «vera» ma di quella «percepita »: un po’ come accade nei bollettini meteo dei Tg estivi, dove c'è la temperatura vera ma tutti sudano per la temperatura «percepita », e ci sono 25 gradi «ma è come se ce ne fossero 35».
In una importante società municipalizzata milanese investita da uno scandalo, il consiglio di amministrazione ha votato qualche tempo fa un ordine del giorno per abolire la prassi di documentare, attraverso la registrazione, le sedute ufficiali del cda. Ovvio che, quando sono poi state depositate agli atti dell’inchiesta alcune intercettazioni che davano conto dei reali criteri di gestione della cosa pubblica da parte di consiglieri e manager appaltati alle varie cordate politiche, i giornali abbiano fatto a gara a pubblicarle: non per chissà quale pruriginosa curiosità da buco della serratura, ma perché, di fronte allo svuotamento degli strumenti ordinari di conoscenza della vita politica e economica, il binocolo giudiziario, che per caso mette il naso là dove il giornalista (e quindi il cittadino) viene tenuto fuori, finisce per essere vissuto e a tratti anche sopravvalutato dalla collettività come un momento di squarcio su una verità altrimenti difficile da intuire.
Non è dunque un caso che proprio sulle cronache giudiziarie prema sempre più il massiccio e indiscriminato ricorso a querele in sede penale e maxirichieste danni in sede civile, spesso talmente pretestuose da avere già in partenza nessun’altra finalità che la speranza di scoraggiare il giornalista dal rioccuparsi di una faccenda, e la certezza di intimidire il portafoglio dell’editore. Portafoglio, guarda caso, per altra via già ammaccato dai pressanti consigli del premier agli imprenditori su dove non indirizzare i loro investimenti pubblicitari; e minacciato (in alcuni casi anche a colpi di 465 mila euro per ogni pubblicazione di atto pur vero, non più coperto da segreto investigativo e riportato in maniera corretta) dal disegno di legge governativo che, con la scusa di voler riformare la disciplina delle intercettazioni, restringe in realtà i margini di pubblicabilità di tutti gli atti.
E se il presidente della Fnsi Franco Siddi comincia a pensare già a un «fondo nazionale di garanzia » alimentato da «cauzioni» imposte ai maniaci della querela e incamerabili in caso di liti ultratemerarie, disarmante nella sua motivazione economica è la risposta che sempre su queste pagine Milena Gabanelli ha raccontato di aver ricevuto da un colosso assicurativo americano: tranquillamente disposto ad accollarsi l’alea di assicurarla in Italia dall’eventualità che sia condannata a risarcire davvero gli oltre 400 milioni di euro di danni chiestile sinora, ma assolutamente indisponibile a sostenere il peso economico della certezza di dover affrontare una massa di (pur campate per aria) azioni legali, tanto inutili quanto destinate comunque a protrarsi per 10 anni in un sistema giudiziario che non ha modo di limitarle facendone pagare cara la pretestuosità.
Eppure è proprio a cominciare dal settore della cronaca giudiziaria che sarebbe utile somministrare quantità industriali di trasparenza, sbiancare la zona grigia anziché pompare ulteriori dosi di segreto. Come? Consentendo per legge al giornalista, alla luce del sole, di poter disporre degli stessi atti non più segreti alle parti processuali, allo scoccare delle varie scadenze procedurali che sin dalle prime battute delle inchieste prevedono appunto un formale deposito a tutte le parti. In questa fase c’è oggi il culmine dell’opacità, il momento nel quale il giornalista è costretto a dosare il rapporto personale e informale con le fonti (senza il quale non troverebbe le notizie) badando però a non farsene strumentalizzare: sempre in bilico sullo scivoloso crinale che separa di un nonnulla ciò che fa il bene del lettore (la riuscita di una plurima verifica della notizia fornitagli) da ciò che fa la rovina del giornalista (il suo ridursi a «buca delle lettere»).
E’ comprensibile che forse un simile rimedio possa di primo acchito spaventare chi teme che così si getti più benzina sul fuoco dell’attuale «Far West» giornalistico. E invece accadrebbe l’esatto contrario. La quantità di benzina sarebbe la stessa che già oggi ribolle in un stufa sprovvista di qualunque valvola di sicurezza che non siano la coscienza personale e lo scrupolo professionale del singolo giornalista; ma scorrerebbe in una caldaia di sicurezza, più trasparente, garantita anche nella «manutenzione». La manutenzione delle regole.
In una importante società municipalizzata milanese investita da uno scandalo, il consiglio di amministrazione ha votato qualche tempo fa un ordine del giorno per abolire la prassi di documentare, attraverso la registrazione, le sedute ufficiali del cda. Ovvio che, quando sono poi state depositate agli atti dell’inchiesta alcune intercettazioni che davano conto dei reali criteri di gestione della cosa pubblica da parte di consiglieri e manager appaltati alle varie cordate politiche, i giornali abbiano fatto a gara a pubblicarle: non per chissà quale pruriginosa curiosità da buco della serratura, ma perché, di fronte allo svuotamento degli strumenti ordinari di conoscenza della vita politica e economica, il binocolo giudiziario, che per caso mette il naso là dove il giornalista (e quindi il cittadino) viene tenuto fuori, finisce per essere vissuto e a tratti anche sopravvalutato dalla collettività come un momento di squarcio su una verità altrimenti difficile da intuire.
Non è dunque un caso che proprio sulle cronache giudiziarie prema sempre più il massiccio e indiscriminato ricorso a querele in sede penale e maxirichieste danni in sede civile, spesso talmente pretestuose da avere già in partenza nessun’altra finalità che la speranza di scoraggiare il giornalista dal rioccuparsi di una faccenda, e la certezza di intimidire il portafoglio dell’editore. Portafoglio, guarda caso, per altra via già ammaccato dai pressanti consigli del premier agli imprenditori su dove non indirizzare i loro investimenti pubblicitari; e minacciato (in alcuni casi anche a colpi di 465 mila euro per ogni pubblicazione di atto pur vero, non più coperto da segreto investigativo e riportato in maniera corretta) dal disegno di legge governativo che, con la scusa di voler riformare la disciplina delle intercettazioni, restringe in realtà i margini di pubblicabilità di tutti gli atti.
E se il presidente della Fnsi Franco Siddi comincia a pensare già a un «fondo nazionale di garanzia » alimentato da «cauzioni» imposte ai maniaci della querela e incamerabili in caso di liti ultratemerarie, disarmante nella sua motivazione economica è la risposta che sempre su queste pagine Milena Gabanelli ha raccontato di aver ricevuto da un colosso assicurativo americano: tranquillamente disposto ad accollarsi l’alea di assicurarla in Italia dall’eventualità che sia condannata a risarcire davvero gli oltre 400 milioni di euro di danni chiestile sinora, ma assolutamente indisponibile a sostenere il peso economico della certezza di dover affrontare una massa di (pur campate per aria) azioni legali, tanto inutili quanto destinate comunque a protrarsi per 10 anni in un sistema giudiziario che non ha modo di limitarle facendone pagare cara la pretestuosità.
Eppure è proprio a cominciare dal settore della cronaca giudiziaria che sarebbe utile somministrare quantità industriali di trasparenza, sbiancare la zona grigia anziché pompare ulteriori dosi di segreto. Come? Consentendo per legge al giornalista, alla luce del sole, di poter disporre degli stessi atti non più segreti alle parti processuali, allo scoccare delle varie scadenze procedurali che sin dalle prime battute delle inchieste prevedono appunto un formale deposito a tutte le parti. In questa fase c’è oggi il culmine dell’opacità, il momento nel quale il giornalista è costretto a dosare il rapporto personale e informale con le fonti (senza il quale non troverebbe le notizie) badando però a non farsene strumentalizzare: sempre in bilico sullo scivoloso crinale che separa di un nonnulla ciò che fa il bene del lettore (la riuscita di una plurima verifica della notizia fornitagli) da ciò che fa la rovina del giornalista (il suo ridursi a «buca delle lettere»).
E’ comprensibile che forse un simile rimedio possa di primo acchito spaventare chi teme che così si getti più benzina sul fuoco dell’attuale «Far West» giornalistico. E invece accadrebbe l’esatto contrario. La quantità di benzina sarebbe la stessa che già oggi ribolle in un stufa sprovvista di qualunque valvola di sicurezza che non siano la coscienza personale e lo scrupolo professionale del singolo giornalista; ma scorrerebbe in una caldaia di sicurezza, più trasparente, garantita anche nella «manutenzione». La manutenzione delle regole.
«Corriere della sera» del 3 ottobre 2009
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