di Maurizio Cucchi
Periodicamente si torna a parlare di premi letterari, con le inevitabili polemiche e le dichiarazioni di personale orrore, più o meno sincero, di molti scrittori e affini. Il clima, in genere, è quello della enfatizzazione di un fenomeno che in fin dei conti è più semplice e qualunquistico limitarsi a deprecare che cercare di sostenere o migliorare. Personalmente, mi è capitato e capita più volte di essere coinvolto, come concorrente o giurato, in premi di poesia o persino di narrativa, e devo dire che raramente mi sono davvero stupito di qualcosa. Semmai mi stupiscono quegli autori (tipo Sebastiano Vassalli) che dopo aver vinto un po’ dappertutto si dichiarano fieramente contrari alle gare letterarie e arrivano persino a far scrivere sui libri che non concorrono a premi.
La prima osservazione da fare, secondo me, è questa: i premi corrispondono, nei traffici che comportano e nell’incoerenza che sanno suscitare, a quella che è oggi la nostra società letteraria. Alcuni dei maggiori (in genere di narrativa) sono un fatto più mondano che culturale, poco o nulla utile alla vera letteratura, più vicini al festival di Sanremo, semmai, che a una normale e serena manifestazione legata al libro e alla letteratura (che sempre meno, del resto, vengono a coincidere). E siccome la confusione tra opere e semplici prodotti di mercato regna sempre più, la qualità degli esiti e dei premiati finisce con l’essere sempre più bassa.
In ogni caso i grossi premi (ma forse soltanto un paio, dopo tutto: Strega e Campiello) muovono grosse e comunque rilevanti vendite. Dunque perché stupirsi se gli editori cercano di accaparrarseli? Forse gli scrittori preferiscono il piccolo editore nascosto, rispetto a quello che più normalmente può dar loro visibilità e contratti interessanti?
I premi che hanno un’eco sono pressoché esclusivamente premi di narrativa, perché sempre di più, causa il mercato che impone ovunque le sue regole, si è creata una sorta di incongrua identificazione tra letteratura e narrativa. Il che respinge ai margini la saggistica, la critica letteraria e la poesia, pubblicate sempre di meno e conseguentemente lette sempre di meno. I premi di poesia, si obietterà, sono numerosissimi. È vero, e in genere costituiscono il solo o quasi il solo riconoscimento pubblico destinato al poeta, oltre che, come sappiamo, il solo riconoscimento economico, che potremmo più semplicemente considerare una modesta forma di indennizzo per un’attività artistica e letteraria che la nostra società riconosce, ma che non ritiene degna di reddito o sostegno di alcun genere. Va anche ricordato che esiste una rete fittissima di premi letterari sommersi, premi, cioè, del cosiddetto sottobosco, con giudici e concorrenti ignoti e domenicali, che distribuiscono denaro, spesso pubblico, e non semplici patacche come sarebbe meglio, a grotteschi personaggi, a sedicenti scrittori e poeti generalmente sprovveduti.
Mi rendo conto di aver riaperto la questione senza chiuderla in alcun modo. Una cosa, però, si può ragionevolmente affermare. Un premio si giudica dalla qualità dei suoi vincitori. Già, e come si giudica la qualità?, può obiettare qualcuno. Be’, amici: imparando a leggere …
«Avvenire» del 7 febbraio 2008
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