Dalle repliche ai «gentili» di Origene, Cirillo e Agostino prese il via un dialogo che fonda l’Occidente
Di Antonio Giuliano
Di Antonio Giuliano
«Prendevano essi il nome da Cristo che era stato suppliziato ad opera del procuratore Ponzio Pilato sotto l’impero di Tiberio: e quella funesta superstizione, repressa per breve tempo, riprendeva ora forza non soltanto in Giudea, luogo di origine di quel male, ma anche in Roma…». Così scriveva Tacito nel II secolo. Lo storico latino raccontava dell’esecuzione dei primi cristiani, giustiziati non perché 'incendiari', ma a causa delle loro 'tendenze antisociali' e della brutalità di Nerone. A tal punto che lo stesso Tacito ammette: «Nasceva un senso di pietà, in quanto essi morivano per saziare la crudeltà di uno, non per il bene di tutti».
Oltre a ribadire una volta di più la storicità di Gesù, simili testimonianze fanno luce sul rapporto tra Roma antica e il cristianesimo delle origini. Perché non si può capire fino in fondo la novità della rivoluzione di Cristo fuori dal contesto storico dell’epoca. Anzi, son proprio gli autori pagani del tempo a far emergere la differenza cristiana. È questa la convinzione che ha ispirato l’esemplare saggio di Robert Louis Wilken, professore di storia del cristianesimo all’Università della Virginia.
Lo studio delle fonti antiche non cristiane può rivelarsi sorprendente. Wilken focalizza l’esperienza dei primi cristiani con gli occhi dei loro oppositori: Plinio il Giovane, Galeno, Celso, Porfirio e Giuliano l’Apostata, vissuti a cavallo tra il II e il IV secolo. Sono cinque figure di rilievo del mondo romano che non risparmiarono accuse anche assai dure nei confronti del cristianesimo.
Eppure molti pagani non ignorarono affatto le Scritture ed ebbero subito la percezione di ciò che distingueva il 'movimento' di Cristo dalla religione tradizionale. In taluni casi i critici pagani contribuirono perfino alla formazione della teologia cristiana. Wilken cita a tal proposito Galeno, medico e filosofo, il quale sollevò per primo la discussione intorno a quella che sarebbe diventata una pietra miliare del pensiero cristiano: la creazione di Dio dal nulla.
Il primo autore romano a menzionare il movimento cristiano fu Plinio il Giovane, governatore della Bitinia (l’odierna Turchia), nel II secolo. Iniziò lui a bollare il cristianesimo come 'superstizione'. E più tardi il filosofo Celso scriverà che Gesù era un mago e uno stregone. Ma tutti i culti stranieri venivano etichettati come superstiziosi. Che poi la società romana fosse poco religiosa o immorale sembra solo uno stereotipo. In realtà la pietà dei romani si esprimeva in una religiosità civile, pubblica. Gli dei rientravano in molte manifestazioni sociali. Era pertanto ritenuto un affronto l’astensione dei cristiani dalle attività civiche, dal servizio militare o dai giochi, come gli spettacoli dei gladiatori o le gare atletiche, veri e propri avvenimenti religiosi. Ai critici pagani il cristianesimo appariva come una scuola filosofica, colpevole di allentare i legami tra la religione e il mondo politico. Se non proprio una setta pericolosa che reclutava i suoi seguaci negli strati più bassi della società. I discepoli di Gesù sembravano più interessati alla conversione degli individui, al loro cambiamento spirituale e morale. Ma tra intellettuali pagani e cristiani non ci furono solo ingiurie o invettive. Verso la fine del II secolo gli apologeti di Cristo cominciarono a controbattere. Origene rispose a Celso, Cirillo vescovo d’Alessandria replicò a Giuliano, Agostino a Porfirio. Nacque un dialogo autentico in cui si affermava l’originalità del cristianesimo: la fede in un Dio fatto uomo e la sua Chiesa, una comunità che andava oltre quella statale. Ma fu uno scambio di idee che non escludeva la ragione: «Gli insegnamenti della nostra fede – affermò Origene – sono in completo accordo con le nozioni universali».
Wilken sradica un luogo comune che dall’illuminismo in poi vede il cristianesimo in opposizione all’antichità classica e la fede sostituirsi alla ragione: «Uno degli aspetti per i quali i pagani provavano più fastidio – scrive invece lo storico americano – era il fatto che, per esporre il loro insegnamento, i pensatori cristiani avessero adottato le idee e i metodi del pensare greci». Porfirio disse che Origene «giocava a fare il greco» e Celso rimproverava i cristiani di far uso dell’allegoria, un prodotto della ragione greca. Ma anche Ambrogio, vescovo di Milano nel IV secolo, per comporre la sua opera sulla vita morale prenderà a modello il trattato di Cicerone sull’etica, dandogli lo stesso titolo: «Dei doveri». Così come Agostino si avvicinerà alla comprensione di Dio attraverso le letture neoplatoniche. «E se i pagani continuarono per tre secoli a comporre libri contro i cristiani – sostiene Wilken – è la prova che prendevano sul serio le idee dei pensatori cristiani». Perché in fondo avvertivano qualcosa di misterioso nei seguaci di Cristo che un testo anonimo del II secolo, la Lettera a Diogneto, descriveva così: «Vivono nella loro patria, ma come forestieri… Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo... Sono uccisi, e riprendono a vivere ... Sono poveri, e fanno ricchi molti... Sono ingiuriati e benedicono… E condannati gioiscono come se ricevessero la vita».
Robert Louis Wilken, I cristiani visti dai romani, Paideia. Pagine 270. Euro 27,90
Oltre a ribadire una volta di più la storicità di Gesù, simili testimonianze fanno luce sul rapporto tra Roma antica e il cristianesimo delle origini. Perché non si può capire fino in fondo la novità della rivoluzione di Cristo fuori dal contesto storico dell’epoca. Anzi, son proprio gli autori pagani del tempo a far emergere la differenza cristiana. È questa la convinzione che ha ispirato l’esemplare saggio di Robert Louis Wilken, professore di storia del cristianesimo all’Università della Virginia.
Lo studio delle fonti antiche non cristiane può rivelarsi sorprendente. Wilken focalizza l’esperienza dei primi cristiani con gli occhi dei loro oppositori: Plinio il Giovane, Galeno, Celso, Porfirio e Giuliano l’Apostata, vissuti a cavallo tra il II e il IV secolo. Sono cinque figure di rilievo del mondo romano che non risparmiarono accuse anche assai dure nei confronti del cristianesimo.
Eppure molti pagani non ignorarono affatto le Scritture ed ebbero subito la percezione di ciò che distingueva il 'movimento' di Cristo dalla religione tradizionale. In taluni casi i critici pagani contribuirono perfino alla formazione della teologia cristiana. Wilken cita a tal proposito Galeno, medico e filosofo, il quale sollevò per primo la discussione intorno a quella che sarebbe diventata una pietra miliare del pensiero cristiano: la creazione di Dio dal nulla.
Il primo autore romano a menzionare il movimento cristiano fu Plinio il Giovane, governatore della Bitinia (l’odierna Turchia), nel II secolo. Iniziò lui a bollare il cristianesimo come 'superstizione'. E più tardi il filosofo Celso scriverà che Gesù era un mago e uno stregone. Ma tutti i culti stranieri venivano etichettati come superstiziosi. Che poi la società romana fosse poco religiosa o immorale sembra solo uno stereotipo. In realtà la pietà dei romani si esprimeva in una religiosità civile, pubblica. Gli dei rientravano in molte manifestazioni sociali. Era pertanto ritenuto un affronto l’astensione dei cristiani dalle attività civiche, dal servizio militare o dai giochi, come gli spettacoli dei gladiatori o le gare atletiche, veri e propri avvenimenti religiosi. Ai critici pagani il cristianesimo appariva come una scuola filosofica, colpevole di allentare i legami tra la religione e il mondo politico. Se non proprio una setta pericolosa che reclutava i suoi seguaci negli strati più bassi della società. I discepoli di Gesù sembravano più interessati alla conversione degli individui, al loro cambiamento spirituale e morale. Ma tra intellettuali pagani e cristiani non ci furono solo ingiurie o invettive. Verso la fine del II secolo gli apologeti di Cristo cominciarono a controbattere. Origene rispose a Celso, Cirillo vescovo d’Alessandria replicò a Giuliano, Agostino a Porfirio. Nacque un dialogo autentico in cui si affermava l’originalità del cristianesimo: la fede in un Dio fatto uomo e la sua Chiesa, una comunità che andava oltre quella statale. Ma fu uno scambio di idee che non escludeva la ragione: «Gli insegnamenti della nostra fede – affermò Origene – sono in completo accordo con le nozioni universali».
Wilken sradica un luogo comune che dall’illuminismo in poi vede il cristianesimo in opposizione all’antichità classica e la fede sostituirsi alla ragione: «Uno degli aspetti per i quali i pagani provavano più fastidio – scrive invece lo storico americano – era il fatto che, per esporre il loro insegnamento, i pensatori cristiani avessero adottato le idee e i metodi del pensare greci». Porfirio disse che Origene «giocava a fare il greco» e Celso rimproverava i cristiani di far uso dell’allegoria, un prodotto della ragione greca. Ma anche Ambrogio, vescovo di Milano nel IV secolo, per comporre la sua opera sulla vita morale prenderà a modello il trattato di Cicerone sull’etica, dandogli lo stesso titolo: «Dei doveri». Così come Agostino si avvicinerà alla comprensione di Dio attraverso le letture neoplatoniche. «E se i pagani continuarono per tre secoli a comporre libri contro i cristiani – sostiene Wilken – è la prova che prendevano sul serio le idee dei pensatori cristiani». Perché in fondo avvertivano qualcosa di misterioso nei seguaci di Cristo che un testo anonimo del II secolo, la Lettera a Diogneto, descriveva così: «Vivono nella loro patria, ma come forestieri… Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo... Sono uccisi, e riprendono a vivere ... Sono poveri, e fanno ricchi molti... Sono ingiuriati e benedicono… E condannati gioiscono come se ricevessero la vita».
Robert Louis Wilken, I cristiani visti dai romani, Paideia. Pagine 270. Euro 27,90
«Avvenire» del 16 febbraio 2008
Nessun commento:
Posta un commento