di Giorgio De Rienzo
Fa discutere il saggio di Arturo Mazzarella sulla letteratura dopo la rivoluzione digitale (La grande rete della scrittura, Bollati Boringhieri, di cui mercoledì ha scritto Paolo Di Stefano sul Corriere), secondo il quale una serie di scrittori - Fortini e Magris tra gli altri - continuano a coltivare un’idea della scrittura letteraria, germinata dalla lettura di altri libri, come un viatico della conoscenza. Mentre altri indicano una via diversa in cui letteratura e comunicazione si toccano nella descrizione del caos non come disordine, ma come velocità di scorrimento del reale. Discorso complicato, la cui sostanza è questa: è in atto un mutamento che non si può arrestare, perché il trasformarsi della comunicazione emarginerà la letteratura che preferisce restare chiusa in sé. La Stampa - con servizi di Belpoliti e Baudino - in una rassegna svelta ricorda che Tondelli (maestro di almeno due generazioni di scrittori) dichiarò di «sentirsi più debitore verso la musica rock che verso i libri». Poi mette in campo la provocazione forte di Pietro Grossi, che confessa di dovere al «libro-game la propria passione per la letteratura, perché leggere libri è sempre stata una fatica». A spremerne il sugo nei nuovi scrittori c’è una tendenza in cui la cultura popolare, fatta di canzoni pop e blog, diventa una sorta di enciclopedia di riferimento. Stando ai fatti ci capita oggi di leggere scritti rumorosi di giovani emergenti, che eliminano il silenzio e la lentezza della vecchia letteratura. Confesso: mi sento irrimediabilmente passatista e reazionario. Credo che silenzio e lentezza con cui si scrivono (e leggono) i libri siano beni da salvare, per una sorta di ecologia dell’anima: perché nell’allontanamento dal rumore e dalla velocità ci è rimasta l’unica possibilità di crescere e pensare.
«Corriere della Sera» del 19 gennaio 2008
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