Religione, valori, cittadinanza
di Francesco D’Agostino
di Francesco D’Agostino
Che parlare di «religione di Stato» sia una bestemmia, come ha sostenuto Oscar Luigi Scalfaro in un recente e brillante intervento all’Auditorium di Roma, è forse un’esagerazione, che però ben si adatta a un’epoca come la nostra, che vive di simili esasperazioni linguistiche e concettuali. Tanto più che Scalfaro non lascia dubbi sul fatto che con l’espressione «religione di Stato» egli non intende far riferimento a una particolare (e sorpassata) modalità giuridica di regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica, ma a uno Stato che, privilegiando ed anzi assolutizzando un particolare credo confessionale, «calpesta la libertà di coscienza». Uno Stato del genere, conclude perentorio il nostro presidente emerito, è «assolutamente infame»: l’espressione è, ancora una volta, vivacissima, ma non ingiustificata.
La libertà di coscienza sta a fondamento di ogni altra libertà, perché ne è, per dir così, il 'nocciolo duro', se è vero, come è vero, che a colui che sia stato ridotto in schiavitù, al quale tutto, assolutamente tutto sia stato tolto, resta comunque un immenso spazio di libertà, quello della propria interiorità, cioè proprio quello spazio sul quale si esercita la violenza estrema di chi opera per conculcare la libertà di coscienza.
«Lo Stato è laico», insiste Scalfaro e questo, egli aggiunge, è un insegnamento che gli proviene non dai massoni, ma dai preti del catechismo.
Ed, allargando il concetto, aggiunge: «Lo Stato non ha religione». Esattissimo, se con ciò si vuol ribadire l’inaccettabilità di qualunque coloritura confessionale di uno Stato, volto a dare privilegi ingiustificati a un credo rispetto ad altri o peggio ancora a contrastare un credo per favorirne altri. L’affermazione appare meno esatta, però, anzi notevolmente equivoca (e meritevole quindi di una qualche ulteriore riflessione), se con essa si volesse intendere – come fanno molti laicisti e come di certo non intende Scalfaro – che lo Stato non deve veicolare alcun 'valore', né deve dare un pubblico riconoscimento alla dimensione spirituale e istituzionale del fenomeno religioso. Lo Stato non è solo un freddo e formale ordinamento giuridico, che vive di mere procedure burocratiche e che è finalizzato a massimizzare gli interessi economici dei singoli; lo Stato va piuttosto inteso come una comunità di cittadini che si riconoscono uniti da una storia e da una tradizione condivisa e soprattutto da vincoli di solidarietà e rispetto reciproco. In questo senso lo Stato – e lo Stato moderno in modo particolare – vive di 'valori', che si sostanziano e trovano il loro culmine nel comune impegno al rispetto dei diritti umani fondamentali di tutti, cittadini e stranieri. E ancora in questo senso qualcuno ha parlato di «religione civile»: un’espressione a molti sgradita, eppure difficilmente sostituibile, perché l’impegno dei cittadini per la promozione del bene comune non lo si può far scaturire da un freddo calcolo utilitaristico.
Infatti, l’operare per il bene comune può richiedere, a volte, che il singolo cittadino accetti consapevolmente di sacrificare i suoi interessi particolari: e il primo segno di uno spirito autenticamente religioso (anche di natura non confessionale) è il sapersi aprire all’universalità e il saper relativizzare la propria particolarità.
La libertà di coscienza sta a fondamento di ogni altra libertà, perché ne è, per dir così, il 'nocciolo duro', se è vero, come è vero, che a colui che sia stato ridotto in schiavitù, al quale tutto, assolutamente tutto sia stato tolto, resta comunque un immenso spazio di libertà, quello della propria interiorità, cioè proprio quello spazio sul quale si esercita la violenza estrema di chi opera per conculcare la libertà di coscienza.
«Lo Stato è laico», insiste Scalfaro e questo, egli aggiunge, è un insegnamento che gli proviene non dai massoni, ma dai preti del catechismo.
Ed, allargando il concetto, aggiunge: «Lo Stato non ha religione». Esattissimo, se con ciò si vuol ribadire l’inaccettabilità di qualunque coloritura confessionale di uno Stato, volto a dare privilegi ingiustificati a un credo rispetto ad altri o peggio ancora a contrastare un credo per favorirne altri. L’affermazione appare meno esatta, però, anzi notevolmente equivoca (e meritevole quindi di una qualche ulteriore riflessione), se con essa si volesse intendere – come fanno molti laicisti e come di certo non intende Scalfaro – che lo Stato non deve veicolare alcun 'valore', né deve dare un pubblico riconoscimento alla dimensione spirituale e istituzionale del fenomeno religioso. Lo Stato non è solo un freddo e formale ordinamento giuridico, che vive di mere procedure burocratiche e che è finalizzato a massimizzare gli interessi economici dei singoli; lo Stato va piuttosto inteso come una comunità di cittadini che si riconoscono uniti da una storia e da una tradizione condivisa e soprattutto da vincoli di solidarietà e rispetto reciproco. In questo senso lo Stato – e lo Stato moderno in modo particolare – vive di 'valori', che si sostanziano e trovano il loro culmine nel comune impegno al rispetto dei diritti umani fondamentali di tutti, cittadini e stranieri. E ancora in questo senso qualcuno ha parlato di «religione civile»: un’espressione a molti sgradita, eppure difficilmente sostituibile, perché l’impegno dei cittadini per la promozione del bene comune non lo si può far scaturire da un freddo calcolo utilitaristico.
Infatti, l’operare per il bene comune può richiedere, a volte, che il singolo cittadino accetti consapevolmente di sacrificare i suoi interessi particolari: e il primo segno di uno spirito autenticamente religioso (anche di natura non confessionale) è il sapersi aprire all’universalità e il saper relativizzare la propria particolarità.
«Avvenire» del 6 febbraio 2008
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