Facevano carriera nell’esercito romano, compravano gioielli da siriani ed ebrei. L’impero non poteva più farne a meno. Ma poi qualcosa andò storto ...
di Alessandro Barbero
Quando pensiamo alle invasioni barbariche, le immagini che ci vengono in mente sono ancor oggi quelle create dai pittori pompier dell’Ottocento: barbari in pelliccia ed elmo cornuto che vagano bramosi nei palazzi conquistati, valutando coll’occhio avido suppellettili preziose e branchi di schiave seminude; oppure, orde di nomadi irsuti che galoppano ululando nelle pianure, lasciando dietro di sé soltanto macerie fumanti. Che gli archeologi non abbiano mai trovato, da nessuna parte, un elmo cornuto e che tutti i re barbari di cui siamo a conoscenza fossero circondati da uno stuolo di segretari romani non basta per dissipare l’idea profondamente radicata di una contrapposizione fra due mondi irriducibili l’uno all’altro. E del resto, diciamolo, una certa dose di responsabilità spetta anche agli scrittori antichi: i quali amavano rappresentare l’impero romano come un’isola di civiltà in mezzo a un mare di barbarie, una fortezza assediata contro cui le steppe del Nord e i deserti del Sud vomitavano incessantemente orde di aggressori. Senonché quella descrizione è interessata e le cose non stavano proprio così. Intanto, va detto che se il romano medio aveva una paura ancestrale dei barbari, il barbaro aveva molta più paura dei romani, e non a torto: perché alla minima provocazione l’imperatore scatenava fuori dai confini terrificanti spedizioni punitive, bruciando villaggi e raccolti, e trucidando gli indigeni, finché i capitribù non venivano in ginocchio a implorare la pace. In cambio offrivano tributi di grano e di bestiame, il lavoro gratuito dei loro uomini nei cantieri del limes o nei campi dei latifondisti romani, e giovani da arruolare nell’esercito imperiale. Giacché quest’impero immenso, che si estendeva dalla Scozia alla Mesopotamia, aveva sempre fame di uomini; le guerre incessanti, la miseria, la peste aprivano larghi vuoti fra i lavoratori della campagna e negli organici delle legioni; e per riempirli, l’unico modo era di accogliere immigrati barbari, e se necessario deportarli con la forza. Roma, dunque, non poteva vivere senza i barbari; e i barbari non potevano vivere senza Roma. I capi più accorti sapevano che fare la guerra all’impero non era la scelta più vantaggiosa. Conveniva molto di più mettersi d’accordo con l’imperatore, fare la guardia in suo nome, e in cambio d’oro sonante, alle zone di frontiera o alle piste carovaniere, come fecero per secoli le tribù saracene del deserto arabico o quelle berbere del Sahara. Quando Roma doveva fare la guerra, per esempio contro la Persia, il grande nemico d’Oriente, i principi barbari si facevano assumere, comandavano bande mercenarie, strappavano gradi e stipendi nell’esercito. Con quell’oro, una volta tornati a casa, si facevano costruire ville all’uso romano, compravano armi e gioielli dai mercanti siriani ed ebrei, e quando la loro gente faceva la fame per colpa d’un cattivo raccolto, imploravano l’imperatore di mandare grano per nutrirla. Nessuna delle tribù che vivevano a poca distanza dal limes avrebbe più saputo cavarsela se i rapporti coll’impero fossero stati improvvisamente interrotti. Insieme ai mercanti con le loro merci preziose, passavano il confine i sacerdoti e i monaci cristiani, a portare anche ai barbari la buona novella. All’inizio i capitribù erano diffidenti, qualcuno di quei missionari ci lasciava la pelle, e i barbari convertiti rischiavano il rogo o l’affogamento, ultimi martiri in un mondo dove i cristiani ormai non erano più perseguitati, e anzi tendevano a comandare. Ma la forza del Cristianesimo, come quella dell’oro romano, vinceva tutte le diffidenze: all’epoca delle invasioni, i barbari erano ormai in gran parte cristiani, o sulla via di diventarlo. Giacché le invasioni ci sono state davvero; ma si trattò d’una faccenda molto più complicata di quel che siamo soliti immaginare. Per secoli l’impero aveva assorbito i barbari, integrandoli a tutti i livelli della sua struttura sociale, fino al punto che una buona metà degli alti ufficiali dell’esercito erano immigrati. Questa cosiddetta barbarizzazione non indebolì affatto l’impero, anzi proprio i generali di origine barbara, come Stilicone, lo difesero con incrollabile fedeltà. Quello che venne meno, a un certo punto, fu la capacità del governo imperiale di gestire con successo le operazioni umanitarie, l’accoglienza di profughi, la sistemazione degli immigrati nelle nuove sedi. Abusi e malversazioni nella gestione dei campi profughi, ribellioni violente di immigrati che non si riuscì a domare con la forza, accordi negoziati alla meno peggio che consentivano ai capi barbari di entrare sul suolo romano con la loro gente armata, provocarono un’insicurezza crescente, un degrado nel rapporto di fiducia fra i cittadini e il governo, e alla fine la rinuncia dell’imperatore a mantenere l’ordine pubblico e riscuotere le imposte in intere province dell’Italia, della Gallia, della Spagna, dell’Africa. Furono allora i capi barbari, stanziati lì a volte col permesso del governo e a volte abusivamente, a prendere in mano le cose. I grandi latifondisti e i vescovi cattolici impararono presto a collaborare con loro, rendendo indispensabili le proprie competenze gestionali. Il degrado che subentrò lentamente, nelle infrastrutture, negli scambi, nell’istruzione pubblica, non fu tanto dovuto alla barbarie dei nuovi arrivati, quanto al venir meno dell’unità mediterranea, al crescente isolamento d’ogni provincia, al crollo del prelievo fiscale e degli investimenti. Ma in quei secoli dell’Alto Medioevo che produssero pochi testi scritti e pochi edifici imponenti, e che perciò a noi appaiono oscuri, l’eredità di fondo della civiltà mediterranea, grecoromana e cristiana, si mescolò con le forze nuove dei barbari venuti dal Nord, e da questo connubio faticoso cominciarono ad emergere nuove lingue, nuove identità nazionali, una nuova civiltà, quella dell’Occidente come lo conosciamo ancor oggi.
«Corriere della Sera» del 23 gennaio 2008
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