Il ruolo della ragione come libera scelta, la tolleranza «appannaggio dell’umanità»: i modelli per una «buona società»
Di Giulio Giorello
Di Giulio Giorello
Voltaire e Pascal, sintesi per un’alleanza tra razionalisti e cattolici
Ci sono dei classici che innervano la comprensione del nostro presente anche se paiono abbastanza inattuali. Uno di questi è il Dizionario filosofico di Voltaire. L’illuminismo non è oggi di moda; lo è la sua critica. La celebrazione della Ragione non ha portato al Terrore? Non ha spianato la via ai dispotismi del Novecento? Non ha sancito il dominio della tecnica sull’uomo? Tutto sarebbe nato da quella «strana confusione» che si è prodotta da quando alcuni individui hanno «osato pensare di testa loro», e ci hanno pure preso gusto! Così faceva già intendere nel dialogo sulla «Libertà di pensiero» (entro il Dizionario) il conte Medroso, settecentesco notabile portoghese, cui però ribatte milord Boldmind (alla lettera, spirito coraggioso): «Noi in Inghilterra siamo felici solo da quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire il proprio parere». Replica l’altro: «Anche noi siamo molto tranquilli a Lisbona, dove nessuno può dire il suo». E l’inglese: «Siete tranquilli, ma non siete felici. È la tranquillità dei galeotti, che remano in cadenza e in silenzio». A questo punto ci si aspetterebbe che il portavoce dell’illuminismo voltairiano pretenda di «emancipare» il povero lusitano. Medroso: «Ma se io mi trovo bene in galera?». Boldmind: «In tal caso, meritate di esserci!». Per l’illuminista non si dà né totalitarismo della ragione, né qualche cosa come un partito che abbia come compito di emancipare chicchessia controvoglia, finendo col rappresentare il disciolto enigma della Storia. L’illuminista, come Socrate, sa di non sapere. Sa quanto delicate siano le nostre costruzioni intellettuali. È consapevole che tecnica e scienza non risolvono tutto (anche se possono rivelarsi di grande giovamento nel caso di epidemie, tsunami, terremoti, ecc.). Ha acquisito la cognizione dell’umana fragilità. Come recita l’esordio della voce «Tolleranza» del Dizionario: «Perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze», poiché «siamo tutti impastati di debolezze e di errori». La parola tolleranza non gode attualmente di buona stampa: è un atteggiamento che viene sospettato di paternalismo, condiscendenza o di un più o meno celato senso di superiorità. Per alcuni, la tolleranza rappresenterebbe addirittura un ostacolo a una genuina partecipazione, a un profondo rispetto, al dispiegarsi del vero amore: occorrerebbe spingersi «oltre la tolleranza», offrendo a chiunque la possibilità (o l’obbligo?) di integrarsi. Ma io preferisco Voltaire, per il quale la tolleranza era «l’appannaggio dell’umanità» - fuor di metafora, il modo per uscire dal bagno di sangue delle guerre di religione e della violenza politica. Ricordiamoci dell’immagine di Pascal: l’uomo è come un giunco, una delle cose più deboli («non c’è bisogno che tutto l’universo si alzi per schiacciarlo, un vapore, una goccia d’acqua basta per ucciderlo») - ma è un giunco «capace di pensare». E Pascal conclude: «Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale». Ma Voltaire ci fa capire che la tolleranza è il nucleo di questo stesso pensiero. Sarebbe ben «stupido» che un giunco piegato dal vento nel fango intimasse al giunco vicino, piegato in senso contrario: «Striscia come me, miserabile, o ti denuncerò perché tu sia divelto e bruciato!». La mia modesta proposta è tenere insieme l’illuminista del Dizionario e il cattolico giansenista dei Pensieri, quel Blaise Pascal spintosi persino alla rinuncia ai frutti del suo «talento geometrico» - perché colpito dal fluire del mondo, che dispiega ai nostri occhi «l’orribile spettacolo del dileguarsi di tutto quello che possediamo». Ritrovo un’eco di questa riflessione pascaliana nella fenomenologia della speranza, lievito e a un tempo illusione dell’umana avventura, che Joseph Ratzinger ha delineato nella sua ultima enciclica: ogni speranza «fugge sempre più lontano» man mano che si definiscono gli sforzi per realizzarla. Ma perché anche la speranza possa fluire nel mondo è comunque necessaria per Ratzinger la libertà! I paragrafi della Spe salvi che trovo più incisivi sono quelli che enfatizzano il ruolo della ragione come scelta. «La situazione delle cose umane dipende in ogni generazione nuovamente dalla libera decisione degli uomini che a essa appartengono» (n. 30). E ancora: «Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata - buona - condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone» (n. 24). Quest’esortazione assume maggior forza in una prospettiva tipicamente illuministica. Forse ci piacerebbe essere tutti Boldmind, ma talvolta cediamo alla tentazione di ripiegare come il conte Medroso. Magari qualcuno si trova tranquillo sulla sua galera, e non vuol rischiare quella «strana confusione» che agli occhi di Boldmind costituiva la libertà inglese. Di quest’ultima Voltaire si dichiarava ammiratore senza riserve, forse non badando troppo al fatto che quella tolleranza e quella libertà non erano piovute dall’alto, ma si erano faticosamente prodotte con dissenso e opposizione dal basso - da parte chi, in particolare, aveva rifiutato nelle isole britanniche la riduzione della varietà dell’esperienza religiosa a una Chiesa di Stato di cui il monarca era il capo spirituale. Dopotutto, l’anglicanesimo non era che il modello specularmente rovesciato del detestato «papismo»: la teocrazia si esprimeva a Roma in una gerarchia che aveva al proprio vertice il pontefice, a Londra il sovrano del corpo politico. Ma non è possibile mettere in relazione fede e società civile al di fuori di quei due schemi? Potrà sembrare paradossale, ma le parole di Benedetto XVI che abbiamo sopra citato possono venire coerentemente impiegate per dissolvere qualunque pretesa di realizzare una «società buona» indipendentemente dalle preferenze dei singoli - in particolare, ogni tentativo di servirsi del sentimento religioso per imporre questa o quella «struttura». Non penso soltanto a istituzioni in senso stretto politiche, quanto alle stesse richieste di «senso» da conferire a ricerche intellettuali o a pratiche quotidiane. Non pochi, di fronte alla crescente complessità del nostro mondo, dichiarano magari «con acredine» come il Walter del romanzo di Musil che non si deve «rinunciare a cercare un senso nella vita». Ma ribatte Ulrich, uomo senza qualità: «Perché mai occorre un senso?». Da voltairiani che si rifiutano di ingabbiare il flusso della vita in questo o quello schema, o Dio in una qualche immagine fatta a nostra somiglianza, amiamo il Gesù «illuminista» e insofferente di ogni formalismo del Vangelo di Matteo (15,13): «Ogni pianta che non piantò il Padre mio celeste sarà sradicata».
«Corriere della sera» del 3 marzo 2008
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