Cosa c’è dietro le insufficienze in pagella
di Giuseppe Savagnone
Il dato ha impressionato tutti: alla fine del primo quadrimestre, sette studenti su dieci hanno almeno una insufficienza in una materia. Almeno, perché se si guarda il numero complessivo delle insufficienze, la media è di quattro per ogni studente.
Numeri che fanno rabbrividire e che danno il quadro di una scuola in seria difficoltà. In realtà, non si tratta di una situazione peggiore che negli anni passati: la differenza è che, mentre prima si faceva meno attenzione a queste carenze e neppure ci si curava di monitorarle, ora che devono assolutamente essere recuperate per passare all’anno successivo si guarda ad esse con assai maggiore preoccupazione. Anche perché, in linea di principio, le scuole dovrebbero essere in grado di avviare corsi di recupero per aiutare i ragazzi che hanno problemi e, con le cifre sopra indicate, è chiaro che la spesa da sostenere per finanziarli appare di gran lunga superiore alle risorse messe a disposizione dal ministero. Forse proprio questa impotenza a fronteggiare gli effetti dovrebbe incoraggiare una più attenta riflessione sulle cause. Prevenire, da sempre, è una stratega migliore del semplice curare. Senza minimamente svalutare gli sforzi fatti dal ministro Fioroni per superare, con un maggiore rigore, il paradosso di una scuola che fino a ieri non si curava di far colmare i debiti formativi, bisogna anche chiedersi come evitare che questi debiti vengano contratti. In altri termini, individuare le ragioni che portano tanti ragazzi a studiare poco e male.
Qualcuno dirà che la poca voglia di lavorare, a scuola, non è una novità. Certamente, bisogna considerare, come causa concomitante, un margine di 'fisiologica' pigrizia dello studente di tutti i tempi, a cui anche quelli di oggi non sfuggono. Ma è una risposta inadeguata.
Più vicina alla realtà è la considerazione che la nostra scuola non riesce, troppo spesso, a intercettare i reali interessi dei ragazzi. Meglio: non riesce a suscitare in essi degli interessi di cui, potenzialmente, sarebbero capaci. Non si può studiare solo per senso del dovere. Deve accendersi una stella che affascini e attragga lo studente, rendendogli accettabili gli inevitabili sacrifici che un lavoro serio e assiduo comporta. Questa stella non può brillare se si resta solo ai libri. Il libro deve essere considerato, a scuola, per quello che è: non un oggetto di studio in se stesso, ma una finestra sulla realtà. Le finestre ci sono per non essere guardate. Sono dei buchi in un muro, attraverso cui si deve poter vedere il mondo. Chi fermasse lo sguardo sul vano aperto, sui vetri, sugli infissi, senza percepire che ci sono fuori alberi, nuvole, montagne, finirebbe per annoiarsi. È quello che capita ai ragazzi con i libri. Non spingono, spesso, la loro mente e il loro cuore oltre le pagine e i paragrafi da imparare. Non si rendono conto che quelle pagine parlano della vita e mirano a rendere più ampio e più profondo il loro rapporto con essa. Perciò i nostri studenti si annoiano. Perciò studiano svogliatamente. Perciò – e di questo si parla poco, ma è la cosa più grave – questo studio non li educa a crescere come persone e non costituisce poi, al di fuori degli impegni scolastici, una risorsa per affrontare bene i loro problemi esistenziali. In questa triste oscillazione tra una cultura senza vita e una vita senza cultura sta probabilmente la radice anche degli insuccessi scolastici. Ma a questo non possono far fronte i ministri. E neppure si può pretendere che gli alunni risolvano da sé il problema. È decisivo il compito degli insegnanti. La vera partita si gioca in classe, nel modo in cui il docente imposta la lezione, nel modo in cui stabilisce un dialogo con gli studenti e riesce a coinvolgerli, facendo risaltare ai loro occhi il rapporto tra la propria disciplina e la vita reale. Se non succede questo, resta solo, poi, il triste compito di avviare dei corsi di recupero che sono certo meglio di niente, ma in cui difficilmente si accenderà la stella che durante l’anno nessuno era stato capace di far scoprire.
Numeri che fanno rabbrividire e che danno il quadro di una scuola in seria difficoltà. In realtà, non si tratta di una situazione peggiore che negli anni passati: la differenza è che, mentre prima si faceva meno attenzione a queste carenze e neppure ci si curava di monitorarle, ora che devono assolutamente essere recuperate per passare all’anno successivo si guarda ad esse con assai maggiore preoccupazione. Anche perché, in linea di principio, le scuole dovrebbero essere in grado di avviare corsi di recupero per aiutare i ragazzi che hanno problemi e, con le cifre sopra indicate, è chiaro che la spesa da sostenere per finanziarli appare di gran lunga superiore alle risorse messe a disposizione dal ministero. Forse proprio questa impotenza a fronteggiare gli effetti dovrebbe incoraggiare una più attenta riflessione sulle cause. Prevenire, da sempre, è una stratega migliore del semplice curare. Senza minimamente svalutare gli sforzi fatti dal ministro Fioroni per superare, con un maggiore rigore, il paradosso di una scuola che fino a ieri non si curava di far colmare i debiti formativi, bisogna anche chiedersi come evitare che questi debiti vengano contratti. In altri termini, individuare le ragioni che portano tanti ragazzi a studiare poco e male.
Qualcuno dirà che la poca voglia di lavorare, a scuola, non è una novità. Certamente, bisogna considerare, come causa concomitante, un margine di 'fisiologica' pigrizia dello studente di tutti i tempi, a cui anche quelli di oggi non sfuggono. Ma è una risposta inadeguata.
Più vicina alla realtà è la considerazione che la nostra scuola non riesce, troppo spesso, a intercettare i reali interessi dei ragazzi. Meglio: non riesce a suscitare in essi degli interessi di cui, potenzialmente, sarebbero capaci. Non si può studiare solo per senso del dovere. Deve accendersi una stella che affascini e attragga lo studente, rendendogli accettabili gli inevitabili sacrifici che un lavoro serio e assiduo comporta. Questa stella non può brillare se si resta solo ai libri. Il libro deve essere considerato, a scuola, per quello che è: non un oggetto di studio in se stesso, ma una finestra sulla realtà. Le finestre ci sono per non essere guardate. Sono dei buchi in un muro, attraverso cui si deve poter vedere il mondo. Chi fermasse lo sguardo sul vano aperto, sui vetri, sugli infissi, senza percepire che ci sono fuori alberi, nuvole, montagne, finirebbe per annoiarsi. È quello che capita ai ragazzi con i libri. Non spingono, spesso, la loro mente e il loro cuore oltre le pagine e i paragrafi da imparare. Non si rendono conto che quelle pagine parlano della vita e mirano a rendere più ampio e più profondo il loro rapporto con essa. Perciò i nostri studenti si annoiano. Perciò studiano svogliatamente. Perciò – e di questo si parla poco, ma è la cosa più grave – questo studio non li educa a crescere come persone e non costituisce poi, al di fuori degli impegni scolastici, una risorsa per affrontare bene i loro problemi esistenziali. In questa triste oscillazione tra una cultura senza vita e una vita senza cultura sta probabilmente la radice anche degli insuccessi scolastici. Ma a questo non possono far fronte i ministri. E neppure si può pretendere che gli alunni risolvano da sé il problema. È decisivo il compito degli insegnanti. La vera partita si gioca in classe, nel modo in cui il docente imposta la lezione, nel modo in cui stabilisce un dialogo con gli studenti e riesce a coinvolgerli, facendo risaltare ai loro occhi il rapporto tra la propria disciplina e la vita reale. Se non succede questo, resta solo, poi, il triste compito di avviare dei corsi di recupero che sono certo meglio di niente, ma in cui difficilmente si accenderà la stella che durante l’anno nessuno era stato capace di far scoprire.
«Avvenire» del 12 marzo 2008
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