di Francesco D’Agostino
Francesco Remotti, noto antropologo dell’Università di Torino, scrive una lettera al Papa. E ritiene opportuno non solo renderla pubblica, ma darle la forma di un libro (già ampiamente recensito su «Avvenire»). Siccome bisogna dare ai libri un titolo accattivante, lo ha intitolato «Contro natura» (Laterza). Se non si badasse troppo al titolo e ci si limitasse a leggere il libro, si potrebbe avere l’impressione che il suo oggetto sia la famiglia, vista nella prospettiva di cui Remoti è massimo competente, quella dell’antropologia culturale. Di libri sulla famiglia, però, ne sono stati scritti tanti e quelli scritti dagli etnologi ripercorrono più o meno tutti le stesse vie. Mostrando come le modalità di manifestazione culturale della famiglia siano plurime, innumerevoli, stravaganti, reciprocamente irriducibili. Sotto questo profilo, Remotti non ci dice e non sarebbe probabilmente in grado di dirci nulla di nuovo. Ecco allora il colpo di genio: la disamina etnografica della famiglia – presentata tout court come 'scienza' – viene esibita come la migliore argomentazione contro chi, vivendo al di fuori della scienza, si nutre di dogmi e di certezze, ispirandosi ad una dottrina, come quella cristiana, che si fonda su di una «concezione univoca, rocciosa, imperiosa dell’essere uomini». Il resto viene da sé: nella critica impietosa di Remotti vengono travolti il magistero della Chiesa e la «Dominus Iesus», gli insegnamenti di Benedetto XVI e soprattutto la sua critica al relativismo, la teologia della «Sacra Famiglia» e la teofagia eucaristica, la tradizione del diritto naturale e l’idea stessa di natura, la difesa della famiglia 'tradizionale' e il pensiero di Marcello Pera e – dato che ci stiamo – anche il tentativo del Presidente Bush di introdurre un emendamento nella Costituzione americana, per vincolare il matrimonio all’eterosessualità.
Consapevole di aver scritto una 'lettera' che «trasuda relativismo da tutti i pori», Remotti insiste però nel ribadire che l’umiltà è la prima virtù degli antropologi.
Vorrei prendere sul serio l’illustre collega, ma – a mia volta in tutta umiltà – non ci riesco. Ancora una volta, infatti, Remotti dà prova non dell’umiltà, ma dell’arroganza che caratterizza gli antropologi culturali (alcuni ovviamente, non tutti!): quell’arroganza che si sostanzia nel voler trarre da un’analisi etnografica descrittiva conclusioni antropologiche di carattere normativo, invadendo così un ambito che non è di pertinenza etnologica, ma filosofica. Esiste una 'verità della famiglia'. Essa si fonda, facendo alcuni, pochi esempi concreti, sul divieto di incesto, sull’apertura del matrimonio alla procreazione, sull’eguaglianza tra i coniugi, sulla pari dignità dei figli, sul rispetto dovuto ai genitori, sull’autonomia della comunità familiare rispetto alla comunità politica. Sappiamo come nella storia questi principi siano stati a volte riconosciuti, a volte deformati, spesso negati o comunque offesi. Ma nessuna alterazione storico-culturale della 'verità della famiglia' può indurci a non riuscire più a percepirla nella sua struttura di senso. È possibile rivendicare ad alta voce e senza timidezze, all’interno di una teoria dei diritti umani fondamentali, i diritti della famiglia e condannare, con analoga fermezza, le politiche antifamiliari di cui il nostro tempo continua a macchiarsi, prime tra tutte quelle che continuano ancora oggi a produrre aborti selettivi. Non c’è bisogno del pur autorevolissimo magistero pontificio per rivendicare la famiglia come un bene umano primario: basta integrare le ricche cognizioni che ci provengono dall’antropologia culturale con un sincero impegno di antropologia filosofica.
Consapevole di aver scritto una 'lettera' che «trasuda relativismo da tutti i pori», Remotti insiste però nel ribadire che l’umiltà è la prima virtù degli antropologi.
Vorrei prendere sul serio l’illustre collega, ma – a mia volta in tutta umiltà – non ci riesco. Ancora una volta, infatti, Remotti dà prova non dell’umiltà, ma dell’arroganza che caratterizza gli antropologi culturali (alcuni ovviamente, non tutti!): quell’arroganza che si sostanzia nel voler trarre da un’analisi etnografica descrittiva conclusioni antropologiche di carattere normativo, invadendo così un ambito che non è di pertinenza etnologica, ma filosofica. Esiste una 'verità della famiglia'. Essa si fonda, facendo alcuni, pochi esempi concreti, sul divieto di incesto, sull’apertura del matrimonio alla procreazione, sull’eguaglianza tra i coniugi, sulla pari dignità dei figli, sul rispetto dovuto ai genitori, sull’autonomia della comunità familiare rispetto alla comunità politica. Sappiamo come nella storia questi principi siano stati a volte riconosciuti, a volte deformati, spesso negati o comunque offesi. Ma nessuna alterazione storico-culturale della 'verità della famiglia' può indurci a non riuscire più a percepirla nella sua struttura di senso. È possibile rivendicare ad alta voce e senza timidezze, all’interno di una teoria dei diritti umani fondamentali, i diritti della famiglia e condannare, con analoga fermezza, le politiche antifamiliari di cui il nostro tempo continua a macchiarsi, prime tra tutte quelle che continuano ancora oggi a produrre aborti selettivi. Non c’è bisogno del pur autorevolissimo magistero pontificio per rivendicare la famiglia come un bene umano primario: basta integrare le ricche cognizioni che ci provengono dall’antropologia culturale con un sincero impegno di antropologia filosofica.
«Avvenire» del 7 marzo 2008
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