Quelle proteste per gli scrittori israeliani invitati alla Fiera del libro di Torino
di Pierluigi Battista
Ernesto Ferrero ha avuto il coraggio di un gesto che, in condizioni normali, non dovrebbe essere coraggioso ma semplicemente ovvio: invitare gli scrittori a una Fiera del libro. Ma il direttore della Fiera torinese ha deciso di ospitare gli scrittori israeliani e per invitare gli scrittori israeliani di questi tempi ci vuole coraggio, e molto fegato in grado di sfidare gli intolleranti che i libri non vogliono leggerli, bensì mandarli al rogo. E infatti gli intolleranti, inorriditi perché a Torino verranno a parlare scrittori del calibro di Avraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman, Aaron Appelfeld, hanno già manifestato il loro sdegno censorio. Negando l’esistenza dello Stato di Israele, del resto, non possono che negare l’esistenza di una letteratura israeliana. Protestano, come ha fatto il Pdci di Torino. Sono pronti a gridare il loro immacolato «antisionismo» (versione politically correct dell’antisemitismo) e anche a oltraggiare, come al solito, la bandiera con la stella di Davide. Nel nome della lotta all’oppressione, naturalmente: pura neolingua orwelliana. Non impediranno, si spera, il regolare svolgimento della Fiera di Torino. Ma è possibile che riescano a procurare un effetto intimidatorio. E ad alimentare attorno a un’occasione di dibattito e di riflessione un’atmosfera di paura e di tensione che scoraggia l’espressione libera e disinibita di ciò che si pensa in un pubblico confronto. A questo serve l’intimidazione preventiva: a smussare i dissensi, a indurre una tentazione di autocensura in chi, per non infiammare gli animi e per esibire virtuosamente una buona volontà «dialogante», rinuncia a dire ciò che potrebbe apparire una «provocazione», potrebbe rappresentare l’esca di un conflitto, potrebbe offendere la sensibilità di chi considera la tua stessa presenza (di più: la tua stessa esistenza) come un atto d’arroganza. Se ne rende conto lo stesso Ferrero quando, sulla Stampa, ricorda che in un articolo Yehoshua aveva denunciato «senza mezzi termini la pratica israeliana degli "avamposti" in Cisgiordania. Dovremmo zittire anche lui?». Ma perché, se invece Yehoshua avesse scritto il contrario, avrebbe forse meritato l’intimazione al silenzio? Il rischio è insomma che il prezzo richiesto per farsi accettare sia quello di dire cose soltanto «accettabili», ma così accettabili che potrebbero essere pronunciate anche da chi vuole mettere il bavaglio a uno scrittore, ostracizzato e boicottato solo perché israeliano. Yehoshua ha scritto esattamente ciò che pensa da tempo, beninteso. Ma è anche possibile che nella variegata e pluralistica democrazia israeliana, a differenza di ciò che accade nella totalità delle nazioni rette da dispotismi che la circondano, altri scrittori la pensino diversamente dal loro più rinomato collega. Cosa fare in quel caso? Zittirli a priori per evitare che siano zittiti con metodi più brutali? Chiedere loro di attenuare e di edulcorare il proprio pensiero per renderlo più innocuo? Ecco perché funziona l’intimidazione preventiva: la libertà di parola è disinnescata, il pensiero pericoloso depotenziato. Gli intolleranti lo sanno, e perciò non perdono occasione per mettersi in mostra.
«Corriere della Sera» del 21 gennaio 2008
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