Il governo inglese vuol cancellare le parole ‘mamma’ e ‘papà’
di Carlo Cardia
Le parole più comuni e più belle, usate dai bambini di tutto il mondo, corrono il rischio di essere archiviate con provvedimenti coattivi.
Riportano i giornali che in Gran Bretagna il governo avrebbe avviato una campagna di informazione e di pressione nelle scuole perché in luogo di papà e mamma si insegni ai bambini e ai ragazzi ad usare il termine indistinto di genitore. Ciò per non creare disagio a quanti si trovano in una situazione diversa da quella della famiglia naturale.
Qualcosa del genere è già avvenuto in Spagna, dove negli atti ufficiali sembra si utilizzino appunto i termini genitore 1 e genitore 2 per indicare coloro che hanno dato vita ai loro figli. In Gran Bretagna la questione scivola dagli atti ufficiali ad una pressione sociale perché le parole papà e mamma siano cancellate dalla vita quotidiana, dal lessico familiare, dalle abitudini delle nuove generazioni. Al di là della questione giuridica, veramente di scarsa importanza, ci troviamo di fronte ad una forma di violenza antropologica che cerca di cancellare parole che hanno un suono e un significato profondo per tutti gli esseri umani. Tutti conoscono la trepidazione e la gioia con cui in una famiglia si attende il giorno in cui il bambino pronunci per la prima volta la parola mamma, e poi la parola papà. È un sentimento di gioia che investe i genitori, si estende ai fratelli e alle sorelle, a tutti i parenti stretti. Ed è un momento in cui la parola esprime il legame umano primordiale, il rapporto fisico e spirituale che unisce il bambino ai genitori, alla famiglia, al primo (per lui unico) nucleo di appartenenza. È il momento in cui nel bambino l’umanità si fa parola, la parola trasmette felicità, la felicità chiude il circolo degli affetti nei quali egli è avvolto e dai quali sarà circondato per lungo tempo. Quando il bambino cresce le parole papà e mamma vengono pronunciate con una consapevolezza diversa, e crescente. La certezza del proprio io, che scaturisce dal rapporto con chi ci ha generato, fa pronunciare quelle parole come si trattasse di un patrimonio prezioso. Esse sono gridate nei momenti di gioia, e in quelli del dolore, sono sussurrate nei momenti di abbandono e di riconoscenza, sono pronunciate con orgoglio all’esterno quando il bambino parla (con amici, nei compiti a scuola, con altri) della propria famiglia. Ma esse mantengono un significato forte, forse più grande, anche nell’età adulta quando sono il segno di una ascendenza, o della protezione che il figlio vuole esprimere verso il padre e la madre anziani, di un sentimento che ormai riassume e unisce vite intere che si sono sviluppate insieme in un rapporto indissolubile. E mantengono una attrattiva formidabile in chi attende o spera di essere chiamato un giorno papà o mamma dai propri figli. Chiunque sa che cambiare queste parole con altre (genitore 1 e genitore 2) cancella in primo luogo la differenza tra il padre e la madre, e bisognerà aggiungere un aggettivo per far capire di chi si sta parlando. Ma soprattutto cambiare quelle parole vuol dire sopprimere una nota comune a tutti i viventi, distruggere un suono nel quale, come nelle musiche più armoniose, si racchiudono sentimenti, ricordi, speranze, a cui nessuno vuole o può rinunciare. Si potrebbero fare tante considerazioni sulla dissennatezza di questo tentativo. Si potrebbe dire che esso non riuscirà nel suo intento, anche perché la letteratura, la poesia, i libri di tutto il mondo, sono pieni di quelle parole e nessuno potrà mai cancellarle. Che si tratta di una imposizione pazzesca perché, alla fin fine, esiste il diritto naturale di usare quelle parole e di declinarle come solo i bambini sanno fare (babbo, mamma, papino, mammina e via di seguito). Che dunque è una bizzarria che non avrà seguito. Tuttavia, si tratta della iniziativa di un governo di un nobile Paese europeo. E allora, sarà pure opportuno ricordare che quando si chiede di tutelare la famiglia nella sua identità, o si afferma che negando i suoi fondamenti ci si avvia su una strada che non si sa dove porta, non si dicono cose astratte, non si esprimono timori eccessivi.
Semplicemente si vuole ricordare che la mortificazione di alcuni principi etici elementari conduce prima o poi ad una invadenza coercitiva nella sfera più intima, quella degli affetti e dei sentimenti più radicati, che può assumere profili grotteschi come quelli che caratterizzano il provvedimento inglese. Al grottesco si può opporre soltanto l’umanità in tutta la sua semplicità e grandezza.
Riportano i giornali che in Gran Bretagna il governo avrebbe avviato una campagna di informazione e di pressione nelle scuole perché in luogo di papà e mamma si insegni ai bambini e ai ragazzi ad usare il termine indistinto di genitore. Ciò per non creare disagio a quanti si trovano in una situazione diversa da quella della famiglia naturale.
Qualcosa del genere è già avvenuto in Spagna, dove negli atti ufficiali sembra si utilizzino appunto i termini genitore 1 e genitore 2 per indicare coloro che hanno dato vita ai loro figli. In Gran Bretagna la questione scivola dagli atti ufficiali ad una pressione sociale perché le parole papà e mamma siano cancellate dalla vita quotidiana, dal lessico familiare, dalle abitudini delle nuove generazioni. Al di là della questione giuridica, veramente di scarsa importanza, ci troviamo di fronte ad una forma di violenza antropologica che cerca di cancellare parole che hanno un suono e un significato profondo per tutti gli esseri umani. Tutti conoscono la trepidazione e la gioia con cui in una famiglia si attende il giorno in cui il bambino pronunci per la prima volta la parola mamma, e poi la parola papà. È un sentimento di gioia che investe i genitori, si estende ai fratelli e alle sorelle, a tutti i parenti stretti. Ed è un momento in cui la parola esprime il legame umano primordiale, il rapporto fisico e spirituale che unisce il bambino ai genitori, alla famiglia, al primo (per lui unico) nucleo di appartenenza. È il momento in cui nel bambino l’umanità si fa parola, la parola trasmette felicità, la felicità chiude il circolo degli affetti nei quali egli è avvolto e dai quali sarà circondato per lungo tempo. Quando il bambino cresce le parole papà e mamma vengono pronunciate con una consapevolezza diversa, e crescente. La certezza del proprio io, che scaturisce dal rapporto con chi ci ha generato, fa pronunciare quelle parole come si trattasse di un patrimonio prezioso. Esse sono gridate nei momenti di gioia, e in quelli del dolore, sono sussurrate nei momenti di abbandono e di riconoscenza, sono pronunciate con orgoglio all’esterno quando il bambino parla (con amici, nei compiti a scuola, con altri) della propria famiglia. Ma esse mantengono un significato forte, forse più grande, anche nell’età adulta quando sono il segno di una ascendenza, o della protezione che il figlio vuole esprimere verso il padre e la madre anziani, di un sentimento che ormai riassume e unisce vite intere che si sono sviluppate insieme in un rapporto indissolubile. E mantengono una attrattiva formidabile in chi attende o spera di essere chiamato un giorno papà o mamma dai propri figli. Chiunque sa che cambiare queste parole con altre (genitore 1 e genitore 2) cancella in primo luogo la differenza tra il padre e la madre, e bisognerà aggiungere un aggettivo per far capire di chi si sta parlando. Ma soprattutto cambiare quelle parole vuol dire sopprimere una nota comune a tutti i viventi, distruggere un suono nel quale, come nelle musiche più armoniose, si racchiudono sentimenti, ricordi, speranze, a cui nessuno vuole o può rinunciare. Si potrebbero fare tante considerazioni sulla dissennatezza di questo tentativo. Si potrebbe dire che esso non riuscirà nel suo intento, anche perché la letteratura, la poesia, i libri di tutto il mondo, sono pieni di quelle parole e nessuno potrà mai cancellarle. Che si tratta di una imposizione pazzesca perché, alla fin fine, esiste il diritto naturale di usare quelle parole e di declinarle come solo i bambini sanno fare (babbo, mamma, papino, mammina e via di seguito). Che dunque è una bizzarria che non avrà seguito. Tuttavia, si tratta della iniziativa di un governo di un nobile Paese europeo. E allora, sarà pure opportuno ricordare che quando si chiede di tutelare la famiglia nella sua identità, o si afferma che negando i suoi fondamenti ci si avvia su una strada che non si sa dove porta, non si dicono cose astratte, non si esprimono timori eccessivi.
Semplicemente si vuole ricordare che la mortificazione di alcuni principi etici elementari conduce prima o poi ad una invadenza coercitiva nella sfera più intima, quella degli affetti e dei sentimenti più radicati, che può assumere profili grotteschi come quelli che caratterizzano il provvedimento inglese. Al grottesco si può opporre soltanto l’umanità in tutta la sua semplicità e grandezza.
«Avvenire» del 2 febbraio 2008
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