di Massimo Gramellini
Il ministro della scuola inglese Ed Balls (Edoardo Palle) ha proibito di chiamare «mamma e papà» la mamma e il papà dei bambini delle elementari. D’ora in poi, quando un maestro del Regno Unito scriverà una nota da portare a casa, dovrà indirizzarla genericamente ai «genitori» dell'alunno, per non offendere eventuali coppie dello stesso sesso. Verrebbe subito da obiettare che il sagace ministro non ha tenuto conto di una categoria assai più numerosa dei figli dei gay: gli orfani di madre o di padre, i quali potrebbero sentirsi offesi da quel plurale («genitori») che evidenzia in modo plastico la loro condizione di inferiorità. E rimane aperta la ferita alla sensibilità dei divorziati e dei loro nuovi compagni, che il diktat di mister Palle ignora con pervicacia perlomeno sospetta. E gli scolari? Potranno ancora raccontare nei temi le loro famiglie banalmente eterosessuali, oppure dovranno accomunare mamma e papà in un’unica frase e scrivere «la mattina i miei genitori si fanno la barba e si mettono lo smalto sulle unghie»?
Plaudo alla lungimiranza ministeriale, ribadita dalla decisione di proibire quell’altra orribile espressione sessista, «comportati da uomo», che se fosse stata ripetuta un po’ più spesso (anche al ministro, quand’era giovane), avrebbe aiutato a far crescere certi sessantottini con un briciolo di serietà. In ogni caso, appurato il brillante livello raggiunto dall’educazione scolastica in Occidente, più che di come gli alunni chiamano i genitori, mi preoccuperei del modo in cui lo scrivono: con quante «enne» e con quante «ti».
Plaudo alla lungimiranza ministeriale, ribadita dalla decisione di proibire quell’altra orribile espressione sessista, «comportati da uomo», che se fosse stata ripetuta un po’ più spesso (anche al ministro, quand’era giovane), avrebbe aiutato a far crescere certi sessantottini con un briciolo di serietà. In ogni caso, appurato il brillante livello raggiunto dall’educazione scolastica in Occidente, più che di come gli alunni chiamano i genitori, mi preoccuperei del modo in cui lo scrivono: con quante «enne» e con quante «ti».
«La Stampa» del 31 gennaio 2008
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