In un ottimo allestimento (labirintico come il pittore), una mostra dedicata al fratello di Giorgio De Chirico. La «pasta cromatica» della materia pittorica dà rilievo alle scene fantastiche
di Andrea Beolchi
C’erano fastidiosi brusii, nelle sale affollate il giorno che la mostra veniva presentata alla stampa, che sospiravano sulla grandezza dei quadri mortificata dalla 'consueta' balordaggine dell’allestimento. Io l’ho trovato invece così perfetto che mi pare giusto cominciare proprio da qui, da questo allestimento labirintico come è labirintico lui, Andrea Savinio, per varcare la soglia di una pittura lussuosa. Entri dunque, ti accoglie En visite; ti senti, da visitatore, già preso nel gioco, e non per un semplice calembour di parole. En visite, che fa parte di un ciclo dedicato al 'canto d’amore' realizzato da Savinio per casa Rosenberg tra il 1930 e il ’31, nelle parvenze di una scenetta borghese è in realtà un laboratorio affollato degli 'strumenti del mestiere' di questo alchimista dello sguardo che ha per fine 'la rivelazione dell’uomo nascosto' ottenuta iniettando in ogni elemento della scena i germi della mutazione: in questa tela le due donne hanno subìto un trapianto di testa, che sono ora quelle di uno struzzo e di un pellicano; lo spazio si è pericolosamente incurvato precipitando in una dimensione che non è più quella convenzionale del 'genere', la tenda (un elemento, si sa, molto caro all’immaginario metafisico del fratello) si è gonfiata di elettricità come un fulmine olimpio, il cielo là fuori si è essiccato in una materia dura e scintillante in cui le nuvole sono piantate come fusi.
Sembra una variante della visione metamorficata di Nivasio Dolcemare descritta in Casa 'La vita', dove Savinio narra come il protagonista, suo alter ego, «cominciò a vedere diversamente.
Vedeva al di là dell’abitudine», così che quei borghesi giocatori di carte prendono a gonfiarsi, a volare come palloncini contro il soffitto, a buttar proboscidi e occhi di polpo. Non tragga in inganno, però, l’assonanza con l’universo onirico di marca surrealista (di cui fu del resto sempre un 'amico polemico'): quel che distingue la pittura di Savinio, persino in composizioni in cui la realtà appare rarefatta, come nella superba Bataille des Centaures del 1930, è di travasare la letteratura e il mito dentro una pittura carnosa e sensuale, insomma non dentro la materia del sogno o della memoria astratta, ma in quella della verità vera, palpitante di vita. Gillo Dorfles lo nota perfettamente in due parole, nella breve nota che arricchisce il catalogo (24 Ore cultura) di un contributo indispensabile: «Solo con eccezionale 'meticolosità' pittorica, raffinatezza cromatica e voluta 'plasticità' delle scene mitiche, era possibile raggiungere quell’aureo livello di 'credibilità' delle immagini, così pittoricamente realistiche e concettualmente fantastiche, che ritengo persino maggiore di quello di de Chirico Già, il destino critico di Andrea de Chirico (lo pseudonimo di Alberto Savinio nacque nel 1914, quando l’artista ventitreenne pubblicò, usando per la prima volta quel nome, Les chants de la mi-mort sulla rivista 'Les Soirées de Paris'), si sa, è stato sempre legato a filo doppio con quello del fratello 'maggiore' Giorgio, e la sua pittura messa in relazione subordinata con quella Metafisica di cui il fratello fu l’inventore (lui ne fu invece il teorico più acuto, con i fondamentali contributi pubblicati su 'Valori Plastici' fra il 1918 e il ’22); a lui insomma toccava il ruolo del 'grande dilettante', come egli stesso si definiva, ma è difficile dire con quale dose d’ironia lo facesse, non tanto nei confronti del pictor optimus, ma di quanti, accecati da un confronto sbagliato, non scorgevano la vera qualità della sua pittura, che è anche ciò che più ne segna la distanza dagli algidi nitori metafisici, e cioè quell’alta dose di voluttà golosa (di diletto) di cui è fatta la pasta cromatica; il valore plastico della materia graffiata, 'pettinata', con cui dipinge i gialli, gli azzurri e i rossi delle sue isole dei giocattoli: dove il cielo e il paesaggio evaporano in una dimensione lontana, otticamente e mentalmente lontana come il mito, mentre quei giochi multicolori assumono il peso della realtà tangibile; essi solo hanno la solida tangibilità del vero. La sdefinizione dello sguardo in Savinio è funzionalmente legata a quella materia pittorica magmatica e cangiante, fermata a uno stato provvisorio e sempre pronta a ridefinirsi in altra carne. Ma torniamo all’allestimento.
Sulle pareti del percorso si aprono, di tanto in tanto, delle feritoie che creano un singolare disturbo di percezione: la prima sensazione è infatti che si tratti di piccoli specchi sghembi come le finestre o le pareti dei teatri saviniani, in cui si riflette un quadro che hai alle spalle. Ti avvicini, ci guardi attraverso e scopri che in realtà si tratta di una finestra che dà sulla stanza accanto, da cui spunta il particolare di un mare (da cui sorge un’isola preziosa) o il grande arco de I frutti delle Esperidi. Capisci che non ti eri sbagliato: sono davvero specchi, ma anche vie di fuga per lo sguardo al di là dell’abitudine.
Milano, Palazzo Reale, ALBERTO SAVINIO. La commedia dell’arte
Fino al 12 giugno
Sembra una variante della visione metamorficata di Nivasio Dolcemare descritta in Casa 'La vita', dove Savinio narra come il protagonista, suo alter ego, «cominciò a vedere diversamente.
Vedeva al di là dell’abitudine», così che quei borghesi giocatori di carte prendono a gonfiarsi, a volare come palloncini contro il soffitto, a buttar proboscidi e occhi di polpo. Non tragga in inganno, però, l’assonanza con l’universo onirico di marca surrealista (di cui fu del resto sempre un 'amico polemico'): quel che distingue la pittura di Savinio, persino in composizioni in cui la realtà appare rarefatta, come nella superba Bataille des Centaures del 1930, è di travasare la letteratura e il mito dentro una pittura carnosa e sensuale, insomma non dentro la materia del sogno o della memoria astratta, ma in quella della verità vera, palpitante di vita. Gillo Dorfles lo nota perfettamente in due parole, nella breve nota che arricchisce il catalogo (24 Ore cultura) di un contributo indispensabile: «Solo con eccezionale 'meticolosità' pittorica, raffinatezza cromatica e voluta 'plasticità' delle scene mitiche, era possibile raggiungere quell’aureo livello di 'credibilità' delle immagini, così pittoricamente realistiche e concettualmente fantastiche, che ritengo persino maggiore di quello di de Chirico Già, il destino critico di Andrea de Chirico (lo pseudonimo di Alberto Savinio nacque nel 1914, quando l’artista ventitreenne pubblicò, usando per la prima volta quel nome, Les chants de la mi-mort sulla rivista 'Les Soirées de Paris'), si sa, è stato sempre legato a filo doppio con quello del fratello 'maggiore' Giorgio, e la sua pittura messa in relazione subordinata con quella Metafisica di cui il fratello fu l’inventore (lui ne fu invece il teorico più acuto, con i fondamentali contributi pubblicati su 'Valori Plastici' fra il 1918 e il ’22); a lui insomma toccava il ruolo del 'grande dilettante', come egli stesso si definiva, ma è difficile dire con quale dose d’ironia lo facesse, non tanto nei confronti del pictor optimus, ma di quanti, accecati da un confronto sbagliato, non scorgevano la vera qualità della sua pittura, che è anche ciò che più ne segna la distanza dagli algidi nitori metafisici, e cioè quell’alta dose di voluttà golosa (di diletto) di cui è fatta la pasta cromatica; il valore plastico della materia graffiata, 'pettinata', con cui dipinge i gialli, gli azzurri e i rossi delle sue isole dei giocattoli: dove il cielo e il paesaggio evaporano in una dimensione lontana, otticamente e mentalmente lontana come il mito, mentre quei giochi multicolori assumono il peso della realtà tangibile; essi solo hanno la solida tangibilità del vero. La sdefinizione dello sguardo in Savinio è funzionalmente legata a quella materia pittorica magmatica e cangiante, fermata a uno stato provvisorio e sempre pronta a ridefinirsi in altra carne. Ma torniamo all’allestimento.
Sulle pareti del percorso si aprono, di tanto in tanto, delle feritoie che creano un singolare disturbo di percezione: la prima sensazione è infatti che si tratti di piccoli specchi sghembi come le finestre o le pareti dei teatri saviniani, in cui si riflette un quadro che hai alle spalle. Ti avvicini, ci guardi attraverso e scopri che in realtà si tratta di una finestra che dà sulla stanza accanto, da cui spunta il particolare di un mare (da cui sorge un’isola preziosa) o il grande arco de I frutti delle Esperidi. Capisci che non ti eri sbagliato: sono davvero specchi, ma anche vie di fuga per lo sguardo al di là dell’abitudine.
Milano, Palazzo Reale, ALBERTO SAVINIO. La commedia dell’arte
Fino al 12 giugno
Il destino critico dell’artista (lo pseudonimo di Alberto Savinio nacque nel 1914) è sempre stato legato al fratello «pictor optimus», da cui lo differenzia la giocosità magmatica. Fu sempre un «amico polemico» dei surrealisti
«Avvenire» dell'8 marzo 2011
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