Femminismo e femminilità, la lunga marcia dei diritti
di Lucia Bellaspiga
Abbiamo lottato per la parità.
Abbiamo urlato nelle piazze che noi eravamo come loro, gli uomini.
Abbiamo pensato che vivere libere equivalesse ad essere la loro copia, bella o brutta che fosse, una specie di clone asessuato, mascolinizzato. Abbiamo bandito la femminilità come fosse un orpello e lo stigma di una manifesta inferiorità. E così, in nome del femminismo, abbiamo rinunciato ad essere femmine, e prima ancora donne. Un errore che affonda le proprie radici storiche nelle battaglie ideologiche del Sessantotto, ma che paghiamo caro ancora oggi, con tanto di interessi: alla fine del nostro lungo affannarci, oggi le libertà sono le stesse di allora, forse sono anche meno, e noi ci siamo perse, convinte ancora che indossare i pantaloni sia un grido di battaglia. Il ragionamento è molto semplice: se si cerca di imitare qualcuno è perché lo si ritiene superiore. Dunque proprio quell’arrabbiato e caparbio emulare la natura dell’uomo, persino i suoi difetti, in realtà tradisce un nostro (immotivato) complesso di inferiorità, quello che ci fa dire «sono libera se sono uguale al maschio».
No, noi siamo libere perché fieramente diverse. Senza cadere in un complesso di superiorità, ma consce del fatto che Dio per i credenti, la natura per gli atei, ci ha fatti uomini e donne, opposti e complementari, ognuno chiamato a valorizzare sempre meglio quelle precipue caratteristiche che fanno di noi donne delle 'vere donne', e dei nostri compagni dei 'veri uomini'.
Ma tutto questo può avvenire solo a un prezzo, che in fondo è anche bello pagare: accettare di essere concavi e convessi, per rivestire ognuno il proprio ruolo.
Lo sanno bene – quando ormai è troppo tardi – le nostre pasionarie d’altri tempi, invecchiate nell’illusione di una finta libertà, sterile e ingannatrice, pentite di aver rinunciato ai privilegi che ci fanno regine, primo tra tutti quello di poter creare la vita, e poi, perché no?, quello di ingentilire il genere umano, di saper amare con il cuore prima che con il corpo, di donare armonia alla forza degli uomini, di insegnare pazienza e buon senso dove impeto e guerra avrebbero il sopravvento. La bellezza salverà il mondo, e noi ne facciamo parte: questo sì ci realizza, se comprendiamo la portata della nostra missione salvifica, se capiamo che la vera battaglia tra i sessi dev’essere per migliorarci entrambi puntando alla vetta, non per omologarci in un mare piatto senza onde e correnti, dove la gara è al ribasso. Siamo arrivate al punto di lottare per il diritto ad uccidere il figlio che portiamo in grembo: per essere come chi non lo può e mai lo potrà generare...
Ma il diritto, quello vero, che ancora ci chiama a battaglia è ancora molto lontano a venire: si chiama complementarietà. Agogniamo una società che ci permetta di valorizzarci senza perderci, che ci lasci essere orgogliosamente mogli e madri, ma insieme lavoratrici, studiose, artiste, donne realizzate anche al di fuori della famiglia, come avviene ai mariti e padri responsabili. Che ci dia i mezzi, concreti, per poter essere – se lo vogliamo – tutto questo insieme.
Solo così 'restare a casa' per crescere i figli non sarà mai un ripiego, parola che suona come una bestemmia se accostata al ruolo di madre, ma una scelta felice perché libera. Solo così sapremo trasmettere i nostri atavici saperi senza l’amarezza di una costante rinuncia. Solo così guarderemo ai nostri uomini come a compagni di strada che marciano assieme a noi, pronti ad aspettarci se ci attardiamo un po’, ma anche a chiederci aiuto quando le più forti siamo noi. E non perché indossiamo i pantaloni, ma perché Dio (o la natura, per chi non crede) ci ha dato la capacità di essere sempre un po’ madri, anche degli uomini che non abbiamo messo al mondo.
Abbiamo urlato nelle piazze che noi eravamo come loro, gli uomini.
Abbiamo pensato che vivere libere equivalesse ad essere la loro copia, bella o brutta che fosse, una specie di clone asessuato, mascolinizzato. Abbiamo bandito la femminilità come fosse un orpello e lo stigma di una manifesta inferiorità. E così, in nome del femminismo, abbiamo rinunciato ad essere femmine, e prima ancora donne. Un errore che affonda le proprie radici storiche nelle battaglie ideologiche del Sessantotto, ma che paghiamo caro ancora oggi, con tanto di interessi: alla fine del nostro lungo affannarci, oggi le libertà sono le stesse di allora, forse sono anche meno, e noi ci siamo perse, convinte ancora che indossare i pantaloni sia un grido di battaglia. Il ragionamento è molto semplice: se si cerca di imitare qualcuno è perché lo si ritiene superiore. Dunque proprio quell’arrabbiato e caparbio emulare la natura dell’uomo, persino i suoi difetti, in realtà tradisce un nostro (immotivato) complesso di inferiorità, quello che ci fa dire «sono libera se sono uguale al maschio».
No, noi siamo libere perché fieramente diverse. Senza cadere in un complesso di superiorità, ma consce del fatto che Dio per i credenti, la natura per gli atei, ci ha fatti uomini e donne, opposti e complementari, ognuno chiamato a valorizzare sempre meglio quelle precipue caratteristiche che fanno di noi donne delle 'vere donne', e dei nostri compagni dei 'veri uomini'.
Ma tutto questo può avvenire solo a un prezzo, che in fondo è anche bello pagare: accettare di essere concavi e convessi, per rivestire ognuno il proprio ruolo.
Lo sanno bene – quando ormai è troppo tardi – le nostre pasionarie d’altri tempi, invecchiate nell’illusione di una finta libertà, sterile e ingannatrice, pentite di aver rinunciato ai privilegi che ci fanno regine, primo tra tutti quello di poter creare la vita, e poi, perché no?, quello di ingentilire il genere umano, di saper amare con il cuore prima che con il corpo, di donare armonia alla forza degli uomini, di insegnare pazienza e buon senso dove impeto e guerra avrebbero il sopravvento. La bellezza salverà il mondo, e noi ne facciamo parte: questo sì ci realizza, se comprendiamo la portata della nostra missione salvifica, se capiamo che la vera battaglia tra i sessi dev’essere per migliorarci entrambi puntando alla vetta, non per omologarci in un mare piatto senza onde e correnti, dove la gara è al ribasso. Siamo arrivate al punto di lottare per il diritto ad uccidere il figlio che portiamo in grembo: per essere come chi non lo può e mai lo potrà generare...
Ma il diritto, quello vero, che ancora ci chiama a battaglia è ancora molto lontano a venire: si chiama complementarietà. Agogniamo una società che ci permetta di valorizzarci senza perderci, che ci lasci essere orgogliosamente mogli e madri, ma insieme lavoratrici, studiose, artiste, donne realizzate anche al di fuori della famiglia, come avviene ai mariti e padri responsabili. Che ci dia i mezzi, concreti, per poter essere – se lo vogliamo – tutto questo insieme.
Solo così 'restare a casa' per crescere i figli non sarà mai un ripiego, parola che suona come una bestemmia se accostata al ruolo di madre, ma una scelta felice perché libera. Solo così sapremo trasmettere i nostri atavici saperi senza l’amarezza di una costante rinuncia. Solo così guarderemo ai nostri uomini come a compagni di strada che marciano assieme a noi, pronti ad aspettarci se ci attardiamo un po’, ma anche a chiederci aiuto quando le più forti siamo noi. E non perché indossiamo i pantaloni, ma perché Dio (o la natura, per chi non crede) ci ha dato la capacità di essere sempre un po’ madri, anche degli uomini che non abbiamo messo al mondo.
«Avvenire» dell'8 marzo 2011
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