di George Scruton
L’amicizia reale si mostra nell’azione e nell’affetto. L’amico reale è quello che viene in aiuto nel momento in cui hai bisogno; è colui che c’è come conforto nelle difficoltà e che condivide con te i tuoi successi. Fare questo davanti a uno schermo è difficile; del resto lo schermo è, prima di tutto, un luogo di informazione, ed è di azione in quanto la comunicazione è una forma di azione. Solo le parole, e non le mani o le cose che queste portano, possono, dallo schermo, raggiungere e confortare chi soffre, tenere lontano i colpi del nemico, o provvedere qualsiasi atteggiamento concreto di amicizia in un periodo di necessità. È cosa discutibile sostenere che più le persone soddisfano il loro bisogno di compagnia tramite relazioni condotte sullo schermo, meno esse sviluppano amicizie di altro genere, quel tipo di amicizia che offre conforto nelle prove reali della vita umana. Le amicizie che vengono praticate tramite lo schermo non possono decollare facilmente e, quando ci riescono, non vi è la garanzia che possano sopportare ogni tensione. Invece è precisamente il fatto che non costano nulla, che sono facili da realizzare tramite lo schermo, ciò che attrae molte persone verso tali amicizie: del resto sono i miei studenti che mi dicono quanto essi temano la dipendenza da Facebook, e spesso si proibiscono di usarlo per diversi giorni in modo da vivere la loro vita reale e le loro relazioni concrete.
Quello a cui stiamo assistendo è un cambio nell’attenzione che media e suscita l’amicizia. In un contatto umano in condizioni normali le persone diventavano amiche stando alla presenza dell’altro, grazie alla comprensione di tutti i diversi segnali sottili, verbali e gestuali, tramite i quali l’altro dà prova del suo carattere, di emozioni e intenzioni nel costruire affetto e fiducia in tandem. L’attenzione veniva fissata sull’altro, sul volto, parole e gesti. E la sua natura, in quanto persona incarnata, costituiva il centro dei sentimenti di amicizia che ispirava. Le persone che costruiscono l’amicizia in questo modo sono davvero coscienti del fatto che appaiono all’altro come l’altro appare a loro stesse. Il volto dell’altro è uno specchio nel quale essi vedono il loro. Appunto perché l’attenzione è fissata sull’altro vi è un’opportunità di auto-conoscenza e di auto-scoperta: per questo, allargare la libertà in presenza dell’altro costituisce una delle gioie della vita umana. L’oggetto dei sentimenti di amicizia si volge verso di te e risponde liberamente alla tua libera attività, amplificando sia la tua consapevolezza sia la sua. Come viene concepita dalla tradizione, l’amicizia è stata definita quale il massimo esempio dell’antico adagio «conosci te stesso».
Quando l’attenzione resta fissata sull’altro tramite il medium dello schermo, si assiste a un cambiamento nell’enfasi. Anzitutto, io ho il mio dito sul pulsante; in ogni momento posso cancellare l’immagine o cliccare per arrivare a qualche nuovo incontro. L’altro è libero nel suo proprio spazio, ma non è veramente libero nel mio spazio, sul quale io sono l’arbitro definitivo. Non sto rischiando me stesso nell’amicizia per avvicinarmi al medesimo modo di come metto in gioco me stesso quando incontro l’altro faccia a faccia. Certamente, l’altro può suscitare la mia attenzione con i suoi messaggi, immagini e richieste mentre sono incollato allo schermo. Nondimeno è a uno schermo che sono incollato, non al volto che vedo in esso. Ogni interazione con l’altro avviene a distanza e, se io ne vengo colpito, ciò diventa un’estensione di qualcosa che riguarda la mia propria scelta.
Nel condurre un’amicizia tramite lo schermo, io godo di un potere sull’altro di cui egli non è realmente cosciente, dal momento che lui non è consapevole di quanto io desidero tenerlo vivo sullo schermo davanti a me. E il potere che ho su di lui, pure lui lo possiede su di me, come pure io ho negata la stessa libertà nel suo spazio che egli ha negata nel mio. Perciò anche lui non rischierà se stesso; egli appare sullo schermo solo quando è nella condizione di poter mantenere il controllo definitivo. Questo è qualcosa che io so di lui e che lui stesso sa che io so, e viceversa. A questo punto tra noi matura un incontro a rischio ridotto, nel quale ognuno è cosciente che l’altro è fondamentalmente negato, sovrano di un castello cibernetico inespugnabile.
Ma questo non è l’unico modo in cui le relazioni cibernetiche vengono colpite dal medium che ne causa la formazione. Per esempio, mentre il «messaggiare» è qualcosa di ancora vivissimo in Facebook, molto di tutto questo viene depersonalizzato nella pratica; l’uso dei messaggi privati è stato soppiantato dal «postare» messaggi su un «muro» di amici pubblici, gesto che sta a significare come l’intera rete ora partecipi a quel comunicato. E mentre il muro, o la bacheca, dei post mantiene le sembianze di un contatto interpersonale, probabilmente la forma più comune di comunicazione su Facebook è lo status update, un messaggio che è trasmesso da una persona a tutti (o, detto in altri termini, a nessuno in particolare).
Tutte queste comunicazioni, insieme a ogni cosa che passa mediante lo schermo, appaiono in competizione con qualunque cosa possa essere chiamata tramite il mouse. Tu clicchi sul tuo amico così come potresti cliccare sulle news o su un video musicale. Egli è uno dei tanti prodotti sul display. L’amicizia con lui, e in generale le relazioni via web, appartengono alla categoria dei divertimenti e delle distrazioni, una comodità che può essere scelta, o meno, a seconda dei beni concorrenti. Questo contribuisce a una radicale demolizione della relazione personale. Le tue relazioni non sono più speciali per te, né definitive per la tua vita morale: sono divertimenti, non hanno una loro propria vita reale, ma prendono in prestito la loro vita dal tuo interesse verso di loro: i marxisti li avrebbero chiamati «feticci».
È dunque possibile sostenere che l’esperienza di Facebook, che ha attratto milioni di persone nel mondo, sia un antidoto alla timidezza, un modo in cui persone altrimenti gravemente paralizzate dall’avventurarsi in società diventano capaci di superare la loro incapacità e di godere nel web di relazioni di affetto da cui ne va molta della loro felicità. Ma vi è un argomento altrettanto forte sul fatto che l’esperienza di Facebook, la cui estensione permette di soppiantare l’ambito reale delle relazioni umane, ipostatizza la timidezza, che mantiene le sue caratteristiche principali, mentre sostituisce un certo tipo di affetto surrogato al posto di quell’affetto reale di cui la timidezza ha paura. Mettendo uno schermo tra te e il tuo amico, mentre si conserva il controllo definitivo su quel che appare nello schermo, tu ti nascondi dall’incontro reale, negando all’altro il potere e la libertà di sfidarti nella tua natura più profonda mediante il chiamarti davanti a te e l’assumerti la responsabilità di voi due.
Sono stato educato al fatto che la timidezza (a differenza della modestia) non rappresenta una virtù bensì un difetto, e deriva dal mettere troppo in alto il valore di te stesso, un valore che ti impedisce di rischiare te stesso nell’incontro con gli altri. Rimuovendo i reali rischi dall’incontro interpersonale, Facebook può incoraggiare una sorta di narcisismo, un atteggiamento di auto-considerazione di sé dentro la quale può trovare spazio un’amicizia che riguarda l’altro. In effetti non c’è nient’altro che il display di se stessi: gli altri vengono elencati sul sito internet senza nulla che li riguardi.
Quello a cui stiamo assistendo è un cambio nell’attenzione che media e suscita l’amicizia. In un contatto umano in condizioni normali le persone diventavano amiche stando alla presenza dell’altro, grazie alla comprensione di tutti i diversi segnali sottili, verbali e gestuali, tramite i quali l’altro dà prova del suo carattere, di emozioni e intenzioni nel costruire affetto e fiducia in tandem. L’attenzione veniva fissata sull’altro, sul volto, parole e gesti. E la sua natura, in quanto persona incarnata, costituiva il centro dei sentimenti di amicizia che ispirava. Le persone che costruiscono l’amicizia in questo modo sono davvero coscienti del fatto che appaiono all’altro come l’altro appare a loro stesse. Il volto dell’altro è uno specchio nel quale essi vedono il loro. Appunto perché l’attenzione è fissata sull’altro vi è un’opportunità di auto-conoscenza e di auto-scoperta: per questo, allargare la libertà in presenza dell’altro costituisce una delle gioie della vita umana. L’oggetto dei sentimenti di amicizia si volge verso di te e risponde liberamente alla tua libera attività, amplificando sia la tua consapevolezza sia la sua. Come viene concepita dalla tradizione, l’amicizia è stata definita quale il massimo esempio dell’antico adagio «conosci te stesso».
Quando l’attenzione resta fissata sull’altro tramite il medium dello schermo, si assiste a un cambiamento nell’enfasi. Anzitutto, io ho il mio dito sul pulsante; in ogni momento posso cancellare l’immagine o cliccare per arrivare a qualche nuovo incontro. L’altro è libero nel suo proprio spazio, ma non è veramente libero nel mio spazio, sul quale io sono l’arbitro definitivo. Non sto rischiando me stesso nell’amicizia per avvicinarmi al medesimo modo di come metto in gioco me stesso quando incontro l’altro faccia a faccia. Certamente, l’altro può suscitare la mia attenzione con i suoi messaggi, immagini e richieste mentre sono incollato allo schermo. Nondimeno è a uno schermo che sono incollato, non al volto che vedo in esso. Ogni interazione con l’altro avviene a distanza e, se io ne vengo colpito, ciò diventa un’estensione di qualcosa che riguarda la mia propria scelta.
Nel condurre un’amicizia tramite lo schermo, io godo di un potere sull’altro di cui egli non è realmente cosciente, dal momento che lui non è consapevole di quanto io desidero tenerlo vivo sullo schermo davanti a me. E il potere che ho su di lui, pure lui lo possiede su di me, come pure io ho negata la stessa libertà nel suo spazio che egli ha negata nel mio. Perciò anche lui non rischierà se stesso; egli appare sullo schermo solo quando è nella condizione di poter mantenere il controllo definitivo. Questo è qualcosa che io so di lui e che lui stesso sa che io so, e viceversa. A questo punto tra noi matura un incontro a rischio ridotto, nel quale ognuno è cosciente che l’altro è fondamentalmente negato, sovrano di un castello cibernetico inespugnabile.
Ma questo non è l’unico modo in cui le relazioni cibernetiche vengono colpite dal medium che ne causa la formazione. Per esempio, mentre il «messaggiare» è qualcosa di ancora vivissimo in Facebook, molto di tutto questo viene depersonalizzato nella pratica; l’uso dei messaggi privati è stato soppiantato dal «postare» messaggi su un «muro» di amici pubblici, gesto che sta a significare come l’intera rete ora partecipi a quel comunicato. E mentre il muro, o la bacheca, dei post mantiene le sembianze di un contatto interpersonale, probabilmente la forma più comune di comunicazione su Facebook è lo status update, un messaggio che è trasmesso da una persona a tutti (o, detto in altri termini, a nessuno in particolare).
Tutte queste comunicazioni, insieme a ogni cosa che passa mediante lo schermo, appaiono in competizione con qualunque cosa possa essere chiamata tramite il mouse. Tu clicchi sul tuo amico così come potresti cliccare sulle news o su un video musicale. Egli è uno dei tanti prodotti sul display. L’amicizia con lui, e in generale le relazioni via web, appartengono alla categoria dei divertimenti e delle distrazioni, una comodità che può essere scelta, o meno, a seconda dei beni concorrenti. Questo contribuisce a una radicale demolizione della relazione personale. Le tue relazioni non sono più speciali per te, né definitive per la tua vita morale: sono divertimenti, non hanno una loro propria vita reale, ma prendono in prestito la loro vita dal tuo interesse verso di loro: i marxisti li avrebbero chiamati «feticci».
È dunque possibile sostenere che l’esperienza di Facebook, che ha attratto milioni di persone nel mondo, sia un antidoto alla timidezza, un modo in cui persone altrimenti gravemente paralizzate dall’avventurarsi in società diventano capaci di superare la loro incapacità e di godere nel web di relazioni di affetto da cui ne va molta della loro felicità. Ma vi è un argomento altrettanto forte sul fatto che l’esperienza di Facebook, la cui estensione permette di soppiantare l’ambito reale delle relazioni umane, ipostatizza la timidezza, che mantiene le sue caratteristiche principali, mentre sostituisce un certo tipo di affetto surrogato al posto di quell’affetto reale di cui la timidezza ha paura. Mettendo uno schermo tra te e il tuo amico, mentre si conserva il controllo definitivo su quel che appare nello schermo, tu ti nascondi dall’incontro reale, negando all’altro il potere e la libertà di sfidarti nella tua natura più profonda mediante il chiamarti davanti a te e l’assumerti la responsabilità di voi due.
Sono stato educato al fatto che la timidezza (a differenza della modestia) non rappresenta una virtù bensì un difetto, e deriva dal mettere troppo in alto il valore di te stesso, un valore che ti impedisce di rischiare te stesso nell’incontro con gli altri. Rimuovendo i reali rischi dall’incontro interpersonale, Facebook può incoraggiare una sorta di narcisismo, un atteggiamento di auto-considerazione di sé dentro la quale può trovare spazio un’amicizia che riguarda l’altro. In effetti non c’è nient’altro che il display di se stessi: gli altri vengono elencati sul sito internet senza nulla che li riguardi.
«Il giornale del 6 marzo 2011
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