«Leggere molto per imparare la bella prosa? Con gli scrittori di oggi, è meglio di no». La provocazione dell’italianista Gianluca Colella
di Roberto I. Zanini
«In passato la letteratura era un modello da seguire. Ai figli e agli alunni si diceva: 'Se vuoi imparare a scrivere devi leggere molto'. Oggi si deve precisare: 'Se vuoi imparare a scrivere devi leggere i classici'... e alcune firme della carta stampata. Gran parte della letteratura contemporanea, infatti, utilizza la lingua parlata, a livelli stilistici bassi. Un registro colloquiale scadente, incastonato di parolacce». A parlare è Gianluca Colella, giovane dottore di ricerca dell’Università di Macerata, dove insegna Linguistica. In libreria in questi giorni c’è un suo libro, edito da Carocci, con un titolo assai esplicativo: Che cos’è la stilistica. Un testo che in forma di manuale analizza i temi dello stile nella narrativa italiana, nella poesia e nel teatro fino alla metà del ’900.
Sembra di capire, insomma, che questo momento storico non offra esempi di stile nemmeno in letteratura.
«Chi vuole scrivere bene non deve certo ispirarsi agli scrittori di oggi, che in molti casi fanno della volgarità lingua di strada la loro cifra. E non sono certo io ad affermarlo per primo. Vale la pena di ricordare a questo propositi il saggio di Maurizio Dardano Stili provvisori e quello di Pietro Trifone Malalingua».
Fra ’800 e ’900 grandi autori come Verga, Capuana e poi Deledda usarono lo stile del dialetto per raccontare storie di gente del popolo.
«La differenza è che all’epoca lo si faceva per far emergere un certo tipo di realtà sociale del tutto trascurata dalla letteratura. Oggi, invece, si scrive in un certo modo nel tentativo di colpire il lettore. Un po’ come accade con la tv spazzatura».
Quando è cominciata questa tendenza?
«È difficile storicizzare questi fenomeni di stile. Per semplificare si fa il nome di Pier Vittorio Tondelli quale spartiacque fra il prima e il dopo. Poi sono venuti i cosiddetti 'Cannibali', dal nome di una delle più note riviste del ’77: 'Cannibale'. Nei loro testi si registra un atteggiamento aggressivo nei confronti della lingua italiana. Per identificare questi scrittori, fra gli addetti ai lavori si usa l’espressione: 'i nipotini di Tondelli'».
Anche in Pasolini si ha un uso 'violento' dello stile linguistico.
«In Pasolini, però, si tendeva a rendere l’elemento poetico. C’era questo tipo di ricerca, che oggi invece non c’è. In Gadda, poi, le distorsioni linguistiche erano quasi un gioco».
Per quale motivo si è registrato un simile decadimento della lingua utilizzata in letteratura?
«Ci sono delle mode. C’è l’imitazione di certa narrativa americana, quella della 'bit generation', tanto per intenderci. E ci sono alcuni scrittori che pensano di essere o sono più abili a sfruttare il momento. Più in generale è la cultura contemporanea che latita. Non c’è un riferimento culturale che sembri stabile. Ci sono idee buone solo per il presente... e la scrittura ne risente. Da una parte si ritiene che la lingua tradizionale abbia perduto la forza per raccontare storie, ma non ci sono riferimenti per forgiarne una nuova».
Quali sono le conseguenze pratiche?
«Se la letteratura, che viene solitamente intesa come forma di comunicazione alta, propone una lingua scadente, la conseguenza è che non esiste più un modello stilistico a cui ispirarsi. Così si scivola verso la volgarità gratuita. Lo si vede nei mezzi di comunicazione di massa. Anche se un certo giornalismo può essere indicato come modello per i giovani».
Cos’è, un paradosso?
«A differenza che in televisione, esiste un giornalismo scritto, che in questa situazione di latitanza letteraria costituisce un punto di riferimento linguistico. Sto parlando di grandi giornali, dei loro articoli di fondo, delle pagine culturali. In questi contesti si può trovare una prosa giornalistica curata e attenta, di buona qualità. Alcuni divulgatori utilizzano una buona scrittura. Anche la lingua dei professori, degli studiosi a volte è buona, ma sempre più spesso appare incomprensibile, fumosa, non certo da indicare come esempio a degli studenti».
I suoi studenti che tipo di scrittura usano?
«Per prima cosa c’è da dire che si scrive poco e i giovani scrivono ancora meno. Agli studenti universitari viene chiesto raramente di fare delle tesine. E quando scrivono, probabilmente per assenza di modelli, si ispirano a una sorta di italiano burocratico».
Per esempio?
«Se chiedo loro cosa hanno fatto nella giornata, non scrivono 'sono andato', ma 'mi sono recato'. Una forma inutilmente burocratica. Allo stesso modo si registra un uso massiccio del verbo 'effettuare', al di fuori del suo significato effettivo, invece del più semplice e polivalente 'fare'. C’è chi usa 'promulgare' invece di 'diffondere'. Si fa un uso frequente di 'ubicare' e via dicendo. Spesso, poi, mostrano di avere scarsa padronanza con la lingua scritta anche nelle cose elementari. Ti mandano una email ed esordiscono con 'buongiorno' o 'buonasera'...
Oppure chiudono con un 'arrivederci'. Non sanno distinguere fra lingua scritta e lingua parlata».
E la poesia?
«Premettendo che ci sono più poeti che lettori di poesia, c’è da dire che dal punto di vista stilistico gode di migliore salute rispetto alla prosa. Su internet, per esempio, ci sono siti di poesia e il buon stile non manca».
Sembra di capire, insomma, che questo momento storico non offra esempi di stile nemmeno in letteratura.
«Chi vuole scrivere bene non deve certo ispirarsi agli scrittori di oggi, che in molti casi fanno della volgarità lingua di strada la loro cifra. E non sono certo io ad affermarlo per primo. Vale la pena di ricordare a questo propositi il saggio di Maurizio Dardano Stili provvisori e quello di Pietro Trifone Malalingua».
Fra ’800 e ’900 grandi autori come Verga, Capuana e poi Deledda usarono lo stile del dialetto per raccontare storie di gente del popolo.
«La differenza è che all’epoca lo si faceva per far emergere un certo tipo di realtà sociale del tutto trascurata dalla letteratura. Oggi, invece, si scrive in un certo modo nel tentativo di colpire il lettore. Un po’ come accade con la tv spazzatura».
Quando è cominciata questa tendenza?
«È difficile storicizzare questi fenomeni di stile. Per semplificare si fa il nome di Pier Vittorio Tondelli quale spartiacque fra il prima e il dopo. Poi sono venuti i cosiddetti 'Cannibali', dal nome di una delle più note riviste del ’77: 'Cannibale'. Nei loro testi si registra un atteggiamento aggressivo nei confronti della lingua italiana. Per identificare questi scrittori, fra gli addetti ai lavori si usa l’espressione: 'i nipotini di Tondelli'».
Anche in Pasolini si ha un uso 'violento' dello stile linguistico.
«In Pasolini, però, si tendeva a rendere l’elemento poetico. C’era questo tipo di ricerca, che oggi invece non c’è. In Gadda, poi, le distorsioni linguistiche erano quasi un gioco».
Per quale motivo si è registrato un simile decadimento della lingua utilizzata in letteratura?
«Ci sono delle mode. C’è l’imitazione di certa narrativa americana, quella della 'bit generation', tanto per intenderci. E ci sono alcuni scrittori che pensano di essere o sono più abili a sfruttare il momento. Più in generale è la cultura contemporanea che latita. Non c’è un riferimento culturale che sembri stabile. Ci sono idee buone solo per il presente... e la scrittura ne risente. Da una parte si ritiene che la lingua tradizionale abbia perduto la forza per raccontare storie, ma non ci sono riferimenti per forgiarne una nuova».
Quali sono le conseguenze pratiche?
«Se la letteratura, che viene solitamente intesa come forma di comunicazione alta, propone una lingua scadente, la conseguenza è che non esiste più un modello stilistico a cui ispirarsi. Così si scivola verso la volgarità gratuita. Lo si vede nei mezzi di comunicazione di massa. Anche se un certo giornalismo può essere indicato come modello per i giovani».
Cos’è, un paradosso?
«A differenza che in televisione, esiste un giornalismo scritto, che in questa situazione di latitanza letteraria costituisce un punto di riferimento linguistico. Sto parlando di grandi giornali, dei loro articoli di fondo, delle pagine culturali. In questi contesti si può trovare una prosa giornalistica curata e attenta, di buona qualità. Alcuni divulgatori utilizzano una buona scrittura. Anche la lingua dei professori, degli studiosi a volte è buona, ma sempre più spesso appare incomprensibile, fumosa, non certo da indicare come esempio a degli studenti».
I suoi studenti che tipo di scrittura usano?
«Per prima cosa c’è da dire che si scrive poco e i giovani scrivono ancora meno. Agli studenti universitari viene chiesto raramente di fare delle tesine. E quando scrivono, probabilmente per assenza di modelli, si ispirano a una sorta di italiano burocratico».
Per esempio?
«Se chiedo loro cosa hanno fatto nella giornata, non scrivono 'sono andato', ma 'mi sono recato'. Una forma inutilmente burocratica. Allo stesso modo si registra un uso massiccio del verbo 'effettuare', al di fuori del suo significato effettivo, invece del più semplice e polivalente 'fare'. C’è chi usa 'promulgare' invece di 'diffondere'. Si fa un uso frequente di 'ubicare' e via dicendo. Spesso, poi, mostrano di avere scarsa padronanza con la lingua scritta anche nelle cose elementari. Ti mandano una email ed esordiscono con 'buongiorno' o 'buonasera'...
Oppure chiudono con un 'arrivederci'. Non sanno distinguere fra lingua scritta e lingua parlata».
E la poesia?
«Premettendo che ci sono più poeti che lettori di poesia, c’è da dire che dal punto di vista stilistico gode di migliore salute rispetto alla prosa. Su internet, per esempio, ci sono siti di poesia e il buon stile non manca».
«A latitare è la cultura contemporanea. Non c’è un riferimento culturale stabile ma idee buone solo per il presente... e lo stile ne risente»
«Avvenire» del 18 marzo 2011
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