di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo (vol. 3/2 – Svevo e Pirandello. Edizione modulare, pp. 145-147)
La presa di coscienza della prigionia nelle «forme». Come già nel Fu Mattia Pascal, al centro dell'ultimo romanzo di Pirandello (pubblicato in volume nel 1926 ma già iniziato verso il 1909) si colloca nuovamente il problema dell'identità. Anche l'impostazione narrativa si collega a quella del romanzo più antico. Il racconto è retrospettivo: il protagonista, Vitangelo Moscarda, conclusosi un ciclo della sua vita, si volge indietro a rievocarlo. La narrazione ha l'andamento di un monologo, a volte ironico e beffardo, a volte affannato e convulso, in cui spesso il destinatario viene chiamato in causa con appelli diretti («Signori...»,«Voi direte...»), o addirittura inserito come personaggio nell'azione, accanto all'io narrante. La vicenda prende le mosse da un fatto apparentemente insignificante: la moglie fa osservare a Moscarda che il naso gli pende un po' da una parte. Egli, che non se n'era mai avveduto, scopre così che l'immagine che si è creato di sé non corrisponde a quella che gli altri hanno di lui. Il fatto lo colpisce profondamente e ne nasce una vera e propria ossessione, che sconvolge la sua vita, inducendolo a commettere ogni sorta di stranezze. Si rende conto del fatto che esistono infiniti «Moscarda», l'uno diverso dall'altro, a seconda della visione delle tante persone che lo conoscono, in primo luogo la moglie. In lui nasce pertanto un vero orrore per la prigione delle «forme» in cui gli altri lo costringono; ma scopre anche di non essere «nessuno» per sé, e questo genera in lui un'altra forma di orrore, un senso angoscioso di assoluta solitudine.
La rivolta e la distruzione delle «forme». La «forma» impostagli, che egli non riesce a tollerare, è soprattutto quella del bieco usuraio. Egli è effettivamente figlio di un usuraio, che ha fatto fortuna sfruttando cinicamente gli altri. Vitangelo, sino al momento della sua crisi, era sempre vissuto in una beata incoscienza, conducendo l'esistenza dell'inetto perdigiorno che non è mai riuscito a concludere nulla, adagiandosi nel benessere assicuratogli dalle ricchezze paterne, senza minimamente occuparsi della banca, lasciata all'amministrazione di due fedeli amici. Ora invece si propone il programma di distruggere tutte le immagini che gli altri si sono costruite di lui, attraverso una serie di gesti bizzarri, imprevedibili, sconcertanti, di vere e proprie «pazzie». La pazzia è un modo caro agli eroi pirandelliani per scardinare il meccanismo delle «forme», delle convenzioni e degli istituti sociali che imprigionano la «vita» nel suo fluire (cfr. Il treno ha fischiato). La prima immagine che vuol distruggere è quella dell'usuraio, e vi si applica con accanita determinazione, rivelando il suo conflitto profondo con la figura del padre, che appare come l'antagonista da abbattere.
Anche Moscarda, come l'eroe del Fu Mattia Pascal, si scopre dunque prigioniero nella «trappola» dell'identità individuale, imposta dai legami sociali. Ma mentre Pascal voleva costruirsi una nuova identità, andando incontro alle tristi vicende che conosciamo, Moscarda vuole solo distruggere le identità impostegli, senza più la pretesa di costruirsene un'altra alternativa: è quindi, nella prospettiva pirandelliana, un eroe più scaltrito e consapevole, che non commette più gli errori del suo predecessore, poiché ha sin dall'inizio coscienza di non essere «nessuno» per sé, di esistere solo nella visione degli altri. Quello che per Pascal è il punto d'arrivo, per Moscarda è un punto di partenza.
Comincia così la serie delle sue pazzie: prima sfratta un povero squilibrato, Marco di Dio, dalla catapecchia che persino il padre usuraio, per pietà, gli aveva concesso gratuitamente, e in tal modo suscita l'esecrazione di tutta la città; poi, con un improvviso colpo di scena, rivela alla folla indignata, accorsa per assistere allo sfratto, di aver donato un'altra casa migliore a di Dio. In seguito impone agli amministratori di liquidare la banca paterna, maltratta la moglie Dida (che pur ama) e la induce a lasciarlo. A questo punto i due amministratori, la moglie e il suocero congiurano per farlo interdire. È avvertito da Anna Rosa, un'amica di Dida, ed egli, rivelandole tutte le sue considerazioni sull'inconsistenza della persona, sulle forme che gli altri ci impongono, l'affascina, ma fa anche saltare il suo equilibrio psichico, e la donna, con gesto improvviso e inspiegabile, gli spara, ferendolo gravemente. Ne nasce uno scandalo enorme: tutta la città è convinta che tra lui e Anna Rosa ci sia una relazione colpevole. A Moscarda, consigliato da un sacerdote, non resta che riconoscere tutte le colpe attribuitegli e dimostrare un eroico ravvedimento. Dona tutti i suoi averi per fondare un ospizio di mendicità, ed egli stesso vi viene ricoverato, vivendo insieme con tutti gli altri mendicanti, vestendo la divisa della comunità e mangiando nella ciotola di legno.
Sconfitta e guarigione. Moscarda ha cercato, con le sue «follie», di ribellarsi al sistema ferreo delle convenzioni sociali, di scardinarlo, ma è rimasto sconfitto. Lui che voleva distruggere tutte le «forme» impostegli, deve accettare l'ennesima «forma» attribuitagli dalla comunità, quella dell'adultero, e scontare per essa una dura pena, del tutto immeritata. E tuttavia proprio in questa sconfitta trova una forma di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano. Se prima la consapevolezza di non essere «nessuno» gli dava un senso di orrore e di solitudine tremenda, ora accetta di buon grado di alienarsi totalmente da se stesso, rifiuta definitivamente ogni identità personale, addirittura il proprio nome, e si abbandona gioiosamente al fluire mutevole della vita, «morendo» ad ogni attimo e «rinascendo» sempre nuovo e senza ricordi, senza più fissarsi in alcuna forma per sé, ma identificandosi con tutte le cose fuori, gli alberi, le nuvole, il vento, in una totale estraniazione dalla società e dalla prigionia delle «forme» che essa impone.
La rivolta e la distruzione delle «forme». La «forma» impostagli, che egli non riesce a tollerare, è soprattutto quella del bieco usuraio. Egli è effettivamente figlio di un usuraio, che ha fatto fortuna sfruttando cinicamente gli altri. Vitangelo, sino al momento della sua crisi, era sempre vissuto in una beata incoscienza, conducendo l'esistenza dell'inetto perdigiorno che non è mai riuscito a concludere nulla, adagiandosi nel benessere assicuratogli dalle ricchezze paterne, senza minimamente occuparsi della banca, lasciata all'amministrazione di due fedeli amici. Ora invece si propone il programma di distruggere tutte le immagini che gli altri si sono costruite di lui, attraverso una serie di gesti bizzarri, imprevedibili, sconcertanti, di vere e proprie «pazzie». La pazzia è un modo caro agli eroi pirandelliani per scardinare il meccanismo delle «forme», delle convenzioni e degli istituti sociali che imprigionano la «vita» nel suo fluire (cfr. Il treno ha fischiato). La prima immagine che vuol distruggere è quella dell'usuraio, e vi si applica con accanita determinazione, rivelando il suo conflitto profondo con la figura del padre, che appare come l'antagonista da abbattere.
Anche Moscarda, come l'eroe del Fu Mattia Pascal, si scopre dunque prigioniero nella «trappola» dell'identità individuale, imposta dai legami sociali. Ma mentre Pascal voleva costruirsi una nuova identità, andando incontro alle tristi vicende che conosciamo, Moscarda vuole solo distruggere le identità impostegli, senza più la pretesa di costruirsene un'altra alternativa: è quindi, nella prospettiva pirandelliana, un eroe più scaltrito e consapevole, che non commette più gli errori del suo predecessore, poiché ha sin dall'inizio coscienza di non essere «nessuno» per sé, di esistere solo nella visione degli altri. Quello che per Pascal è il punto d'arrivo, per Moscarda è un punto di partenza.
Comincia così la serie delle sue pazzie: prima sfratta un povero squilibrato, Marco di Dio, dalla catapecchia che persino il padre usuraio, per pietà, gli aveva concesso gratuitamente, e in tal modo suscita l'esecrazione di tutta la città; poi, con un improvviso colpo di scena, rivela alla folla indignata, accorsa per assistere allo sfratto, di aver donato un'altra casa migliore a di Dio. In seguito impone agli amministratori di liquidare la banca paterna, maltratta la moglie Dida (che pur ama) e la induce a lasciarlo. A questo punto i due amministratori, la moglie e il suocero congiurano per farlo interdire. È avvertito da Anna Rosa, un'amica di Dida, ed egli, rivelandole tutte le sue considerazioni sull'inconsistenza della persona, sulle forme che gli altri ci impongono, l'affascina, ma fa anche saltare il suo equilibrio psichico, e la donna, con gesto improvviso e inspiegabile, gli spara, ferendolo gravemente. Ne nasce uno scandalo enorme: tutta la città è convinta che tra lui e Anna Rosa ci sia una relazione colpevole. A Moscarda, consigliato da un sacerdote, non resta che riconoscere tutte le colpe attribuitegli e dimostrare un eroico ravvedimento. Dona tutti i suoi averi per fondare un ospizio di mendicità, ed egli stesso vi viene ricoverato, vivendo insieme con tutti gli altri mendicanti, vestendo la divisa della comunità e mangiando nella ciotola di legno.
Sconfitta e guarigione. Moscarda ha cercato, con le sue «follie», di ribellarsi al sistema ferreo delle convenzioni sociali, di scardinarlo, ma è rimasto sconfitto. Lui che voleva distruggere tutte le «forme» impostegli, deve accettare l'ennesima «forma» attribuitagli dalla comunità, quella dell'adultero, e scontare per essa una dura pena, del tutto immeritata. E tuttavia proprio in questa sconfitta trova una forma di guarigione dalle angosce che lo ossessionavano. Se prima la consapevolezza di non essere «nessuno» gli dava un senso di orrore e di solitudine tremenda, ora accetta di buon grado di alienarsi totalmente da se stesso, rifiuta definitivamente ogni identità personale, addirittura il proprio nome, e si abbandona gioiosamente al fluire mutevole della vita, «morendo» ad ogni attimo e «rinascendo» sempre nuovo e senza ricordi, senza più fissarsi in alcuna forma per sé, ma identificandosi con tutte le cose fuori, gli alberi, le nuvole, il vento, in una totale estraniazione dalla società e dalla prigionia delle «forme» che essa impone.
Postato l'11 marzo 2011
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