Di fronte alla catastrofe del Giappone
di Claudio Magris
In queste ore si ha talvolta l'impressione di assistere alla fine del mondo in diretta; le voragini, l'acqua e il fuoco in furore che in Giappone stanno distruggendo tante vite umane e i loro luoghi ci arrivano in casa. D'improvviso, dinanzi alla natura - da noi così dominata, sfruttata, intaccata - ci si sente come i lillipuziani davanti a Gulliver; ondate sbriciolano grandi edifici come giocattoli, automobili e treni interi spariscono come fuscelli, il cielo s'incendia. Ma cos'è questa cosiddetta natura, cui spesso gli uomini si contrappongono - ora con l'arroganza del dominatore, ora con l'angosciata umiltà del colpevole guastatore - come se non facessero anch'essi parte della natura, come se non fossero anch'essi natura, al pari degli animali, delle piante o delle onde? Le catastrofi naturali inducono spesso a pensose e forse inconsciamente compiaciute geremiadi sulla punita superbia dell'uomo che pretende di dominare la natura, sulla tecnica che devasta la vita. Ogni disastro è buono per criticare ogni fiducia nella tecnica e nel progresso. L'apocalisse - immaginata, nella tradizione, ora per fuoco ora per acqua adesso confusi nella distruzione provocata dal terremoto - incute, a chi la guarda come noi in diretta ma da lontano e al sicuro o almeno pensando di essere al sicuro, un brivido di spavento. Come accade spesso con lo spavento, a questo si mescolano un'ambigua attrazione e un compunto monito sulla debolezza dell'uomo e la sua mancanza di umiltà nei confronti della natura.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.
L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.
L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.
La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.
Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.
Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.
C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».
Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.
Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.
Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.
Tutto ciò si intensifica dinanzi a sciagure più direttamente dovute a responsabilità umane, a differenza dal carattere più decisamente «naturale» del terremoto e dello tsunami che infuriano in Giappone e che non sembra possano esser messi in conto all'insensatezza o alla disonestà umana, come invece ad esempio nel caso degli effetti scatenati dalle deforestazioni o dall'infame edilizia che, in molti casi - non sembra questo essere il caso del Giappone ora colpito - non si preoccupa, per incompetenza o avidità truffaldina, delle misure antisismiche.
L'orgoglio dell'uomo che con la sua tecnica soggioga la natura o l'invettiva contro questo orgoglio partono da un abbaglio: dalla contrapposizione fra l'uomo e la natura e dalla contrapposizione, altrettanto fallace, fra naturale e artificiale. Come dice un grande inno alla natura scritto da Goethe - o trascritto da un suo seguace - tutto è natura, anche ciò che ai nostri occhi sembra negarla ed è invece una sua messinscena. C'è il mito di una natura pura e incorrotta, in quanto vergine di ogni intervento umano che la corromperebbe. Ma nemmeno il più schietto e sano vino esiste in natura senza l'agire di chi coltiva la vite e vendemmia l'uva. Anche i nidi degli uccelli non esistono senza l'attività di questi ultimi che li costruisce. Chi, come Goethe, ha il senso profondo dell'appartenenza della specie umana, come le altre specie, alla natura, sa che l'impulso dell'uomo a costruirsi una tenda o una casa non è meno naturale di quello che spinge i castori a costruire le loro dighe che si oppongono all'impeto, altrettanto naturale, delle acque.
L'uomo non sta devastando «la natura», ma sta spesso compiendo un altro peccato, più autodistruttivo che distruttivo: sta minacciando non la natura, ma se stesso, la propria specie. I funghi velenosi non sono meno naturali di quelli mangerecci; le distese gelate di Plutone non sono meno naturali dei colli toscani in fiore; i gas che escono dai tubi di scappamento delle automobili non sono meno naturali del profumo dei fiori, perché sono composti di elementi chimici che fanno parte della natura, del Creato. Più semplicemente, funghi velenosi, pianeti gelidi e gas tossici sono letali per la nostra specie, di cui alla «natura» probabilmente non importa più che degli estinti dinosauri, ma che per noi invece conta. Tutto, comunque, appartiene alla natura delle cose, De rerum Natura.
La cosiddetta tecnica non va quindi demonizzata come un peccato contro natura; è la sua dismisura, il suo abuso spesso dissennato e imbecille che vanno denunciati; non con toni di untuosa o apocalittica condanna della miseria dell'uomo, ma con la chiarezza della ragione, che non ha da inchinarsi alla natura - della quale e della cui evoluzione fa parte - bensì rendersi conto dei propri limiti, perseguire il progresso senza illudersi con tracotanza che esso sia illimitato ma misurandosi con tutti i problemi e i guasti che pure esso crea, e cercare di capire, volta per volta, quando sia necessario proseguire e quando sia necessario fermarsi o magari far qualche passo indietro, posto che ciò sia possibile. È questa avvertenza di un possibile pericolo che ci manca; anche vedendo le immagini della tragedia giapponese restiamo tranquilli, stupidamente convinti che mai qualcosa di simile ci possa accadere, qualsiasi madornale errore possiamo commettere. Allo stesso modo, quando muore qualcuno, di cancro o di infarto, siamo sotto sotto persuasi che ciò non ci accadrà mai. Questa protettiva incoscienza del pericolo caratterizza non solo gli individui, ma anche le civiltà, le culture, le società, certe di essere immortali. Pure le civiltà hanno le loro endorfine, le droghe che le proteggono dall'ansia di sapere di dovere, un giorno o l'altro, morire.
Non so - e non ho alcuna competenza per poterlo sapere o capire - se il pericolo rappresentato dalla rottura del circuito di raffreddamento del reattore nucleare giapponese e dall'esplosione radioattiva sia la prova dello sbaglio di costruire centrali nucleari in genere o se invece indichi, come credo - ma senza alcuna certezza, data la mia ignoranza in materia - il pericolo sempre presente in ogni attività umana. Nel suo articolo, così vigoroso e convincente, apparso sul Corriere di ieri, Massimo Gaggi ha messo in evidenza la razionale e ferrea volontà dimostrata dal Giappone nel perseguimento della crescita, senza «sfide alla sorte», nella consapevolezza dei rischi e nella fattiva preparazione ad affrontarli. In generale, l'atteggiamento e il comportamento dei giapponesi in questa circostanza danno una grande prova del coraggio, della fermezza e della calma con cui l'uomo sa talora far fronte al disastro.
Questa dignità e questa forza morale non hanno nulla a che vedere con la superbia prometeica di chi pensa, con allegra incoscienza, di poter sfidare impunemente l'equilibrio necessario alla sua specie, ritenendo che quella forma della natura che chiamiamo tecnica possa sganciarsi dall'antica madre ossia dalla totalità che l'ha generata e la comprende, come un ramo che pretendesse di rinnegare l'albero in cui e da cui è cresciuto e andarsene per conto proprio. Se tante reazioni antitecnologiche - pure certi toni del pathos antinucleare - appaiono irrazionali, ancor più giulivamente e autolesivamente irrazionale è la sicumera con la quale, in nome di un progresso che così cessa di esser tale e di una supponenza scientista convinta che la scienza sia Dio, si distruggono foreste, si sperperano energie, si esauriscono risorse senza pensare a come la Terra potrà nutrire un numero sempre più insostenibile di affamati e a come si potrà vivere in una Terra sempre più diversa da quella cui è abituata la nostra specie.
C'è, nella specie umana, una presunzione di eternità che la rende irresponsabilmente scialacquatrice della vita e che va incontro con presunzione a una possibile trasformazione di se stessa. Studiosi seri parlano di un nostro prossimo futuro da cyborg, di uomini quali ibridi di corpi umani e integrazioni tecnologiche; è teoricamente possibile un mondo di sole donne, capaci di riprodursi senza intervento dell'uomo; l'ingegneria genetica promette - o minaccia - esseri umani radicalmente diversi da noi, tanto da essere difficilmente definibili «noi».
Forse è in atto una radicale trasformazione della nostra specie, destinata a mutare il nostro modo di essere e di sentire; in un mondo in cui nascessero solo donne da donne, sarebbe ad esempio difficile capire Ettore che gioca con Astianatte sperando che suo figlio diventi più grande di lui o la passione di Paolo e Francesca, cose senza le quali non saremmo quello che siamo.
Certo, le specie si sono sempre trasformate e continuano a farlo. Ma, a differenza dal processo che ha portato dagli organismi unicellulari (o dai frammenti del Big Bang) a Marilyn Monroe, la trasformazione della nostra specie avverrebbe in tempi brevissimi anziché in miliardi di anni, in tempi forse insostenibili per chi dovesse viverli.
Questa eventuale trasformazione - irrazionalmente vagheggiata o temuta - ci addolorerebbe più della nostra morte individuale, perché ci conforta credere che dopo di noi ci saranno bambini come i nostri figli, donne e uomini amabili come le persone che abbiamo amato. La forza, la calma, la dignità con cui oggi quei giapponesi affrontano la gravissima catastrofe dimostrano che l'uomo classico, come lo conosciamo da millenni, non è ancora superato - come proclamava Nietzsche, sperandolo e insieme temendolo - ma è ancora degnamente al suo posto.
«Corriere della Sera» del 13 marzo 2011
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