Siamo 'quasi' niente, ma non niente
di Davide Rondoni
Come formiche. Laboriose, geniali. Ma formiche. Tutta la tua vita di uomo o di donna – amori, dolori, ricordi, fatiche – spazzata via in un istante. Il terremoto e il maremoto giapponese ci riportano con il febbrile succedersi di immagini e di titoli sempre più inquietanti una verità di cui da sempre l’uomo parla. Lo diceva il poeta dei Salmi, l’antico greco come il latino. Il nostro Leopardi, il nordico Ibsen: di fronte alla potenza della natura siamo quasi niente. La potenza che si dispiega a volte in spettacoli vertiginosi di bellezza. O altre volte in rasoiate tremende di morte. E allora di fronte a questa verità da profeti e da breakingnews, che grida e mormora in libri antichi e nei nostri video accesi, si possono prendere vari atteggiamenti. Perché tutti, sì, siamo come formiche, esseri quasi confusi con il nulla, come diceva Leopardi. Ma questa verità che riguarda tutti può essere affrontata in vari modi personali.
In questi giorni spesso anche forzando si sono lodate la 'freddezza dignitosa', la compostezza del popolo giapponese. Si è visto il deposito di una millenaria sapienza che vive i colpi del destino come un fato da accettare compattandosi in una forza collettiva, superando il destino di dolore individuale e trovando risorse per rimettersi in moto come nazione. Una dignitosa accettazione dell’essere fragili e minimi, pur se ideatori di alcune prodigiose macchine che hanno resistito alla distruzione. Un operoso fatalismo, una dignitosa sconfitta.
Ti basta questo? chiede a ognuno di noi il terremoto. Oppure c’è chi solo dispera. Chi cambia canale, cerca evasione dall’imponente evidenza di precarietà. Chi disperando del tutto spera solo nella fortuna. Spera di scamparla, in un modo o nell’altro. E divide il mondo in fortunati e no. La dea fortuna (lo vediamo da quanta pubblicità è dedicata a lotterie) gode ottima reputazione tra di noi. Ma, appunto, è il regno di una specie di disperazione: ci si affida al caso, ci si augura che la malasorte colpisca qualche chilometro più in là. Oppure c’è chi di fronte e dentro a questo evento naturale (e umano) trova una provocazione a vivere più coscientemente il senso del limite. L’uomo religioso da sempre chiama queste cose: un segno.
Tendiamo a dimenticare. Troppi pensieri di banale sufficienza, di autodeterminazione albergano nelle nostre menti. Fino a che la luce dura della tragedia non ci ricorda: sei quasi nulla. Noi cristiani ce lo siamo sentiti ripetere nel Mercoledì delle ceneri. L’uomo religioso riflette sul limite della condizione umana. Non conosce la sorpresa ipocrita ed egoista di chi si scandalizza o disperando si affida a una dea cieca. Tutti diciamo anche 'ti amo da morire', oppure 'sei bella da morire' perché in ogni esperienza umana – di dolore come di gioia – si tocca il nostro essere limitati. E sempre dobbiamo aprirci appunto a una misura più grande per comprendere il mistero dell’amore. Del dolore. Del reale vivere. Leopardi diceva che il segno più netto della nostra grandezza è questo senso di piccolezza, d’essere un 'quasi niente' che però abbraccia il mistero infinito del reale, essendone cosciente e ponendo domande: che fai tu luna in ciel ? Siamo 'quasi' niente, e quindi no, non siamo pari a niente. Ogni uomo, pur disperso come in un soffio dagli elementi è differente (anche ora, nell’ora della morte) dal niente. La sventura giapponese o ci lascia più coscienti del mistero o ci sarà inutile. O lascia più attenti a cercare quale sia il volto di questo mistero, o sarà qualcosa da cui voltare il capo. Da cui sperare di proteggere noi e i nostri piccoli come fa una cagna, impaurita, incosciente.
In questi giorni spesso anche forzando si sono lodate la 'freddezza dignitosa', la compostezza del popolo giapponese. Si è visto il deposito di una millenaria sapienza che vive i colpi del destino come un fato da accettare compattandosi in una forza collettiva, superando il destino di dolore individuale e trovando risorse per rimettersi in moto come nazione. Una dignitosa accettazione dell’essere fragili e minimi, pur se ideatori di alcune prodigiose macchine che hanno resistito alla distruzione. Un operoso fatalismo, una dignitosa sconfitta.
Ti basta questo? chiede a ognuno di noi il terremoto. Oppure c’è chi solo dispera. Chi cambia canale, cerca evasione dall’imponente evidenza di precarietà. Chi disperando del tutto spera solo nella fortuna. Spera di scamparla, in un modo o nell’altro. E divide il mondo in fortunati e no. La dea fortuna (lo vediamo da quanta pubblicità è dedicata a lotterie) gode ottima reputazione tra di noi. Ma, appunto, è il regno di una specie di disperazione: ci si affida al caso, ci si augura che la malasorte colpisca qualche chilometro più in là. Oppure c’è chi di fronte e dentro a questo evento naturale (e umano) trova una provocazione a vivere più coscientemente il senso del limite. L’uomo religioso da sempre chiama queste cose: un segno.
Tendiamo a dimenticare. Troppi pensieri di banale sufficienza, di autodeterminazione albergano nelle nostre menti. Fino a che la luce dura della tragedia non ci ricorda: sei quasi nulla. Noi cristiani ce lo siamo sentiti ripetere nel Mercoledì delle ceneri. L’uomo religioso riflette sul limite della condizione umana. Non conosce la sorpresa ipocrita ed egoista di chi si scandalizza o disperando si affida a una dea cieca. Tutti diciamo anche 'ti amo da morire', oppure 'sei bella da morire' perché in ogni esperienza umana – di dolore come di gioia – si tocca il nostro essere limitati. E sempre dobbiamo aprirci appunto a una misura più grande per comprendere il mistero dell’amore. Del dolore. Del reale vivere. Leopardi diceva che il segno più netto della nostra grandezza è questo senso di piccolezza, d’essere un 'quasi niente' che però abbraccia il mistero infinito del reale, essendone cosciente e ponendo domande: che fai tu luna in ciel ? Siamo 'quasi' niente, e quindi no, non siamo pari a niente. Ogni uomo, pur disperso come in un soffio dagli elementi è differente (anche ora, nell’ora della morte) dal niente. La sventura giapponese o ci lascia più coscienti del mistero o ci sarà inutile. O lascia più attenti a cercare quale sia il volto di questo mistero, o sarà qualcosa da cui voltare il capo. Da cui sperare di proteggere noi e i nostri piccoli come fa una cagna, impaurita, incosciente.
«Avvenire» del 13 marzo 2011
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