Con "Il rito" di Mikael Håfström ritorna sul grande schermo la figura dell'esorcista
di Gaetano Vallini
"Tutto qui?" domanda deluso il seminarista Michael Kovak al termine del primo esorcismo al quale assiste. "Che cosa credevi di vedere: teste che ruotano e zuppa di piselli?" risponde l'anziano padre Lucas, dal quale è stato inviato per imparare, ma soprattutto per vincere il suo scetticismo e, ancora di più, per ritrovare la fede. Una battuta che cerca di sottrarre il film Il rito dall'ingombrante, ma ineludibile, paragone con L'esorcista, il capolavoro di William Friedkin (1973) al quale, tuttavia, rende l'omaggio di sottili citazioni. Nella pellicola diretta da Mikael Håfström non mancano del resto scene inquietanti, con i posseduti dal demonio che sputano enormi chiodi, assumono pose innaturali e si deformano ruggendo frasi in lingue e voci diverse. Certo, quarant'anni dopo, non fanno più lo stesso terrificante effetto sul pubblico. Ma è il prezzo che si deve pagare al genere horror di cui il filone demoniaco è un sottogruppo molto frequentato, anche se raramente con risultati interessanti.
Hollywood ogni tanto sente il bisogno di cimentarsi in storie in cui contrapporre direttamente il bene e il male, nel titanico e apocalittico scontro tra divino e demoniaco. Spesso però, cinematograficamente parlando, l'interpretazione dei fatti è molto libera, si punta sull'orrore, sempre in eccesso visto che al botteghino paga, lasciando così in secondo piano l'oggettività di una realtà - la possessione - già di suo agghiacciante. Allora, facendo la tara di ciò che è palesemente irreale, e che comunque qui resta meno esasperato che altrove, nonché di alcuni immancabili stereotipi e di altrettanto perdonabili incongruenze, Il rito riesce a mantenere una sufficiente credibilità. Se non altro nella psicologia dei personaggi, con i loro tanti dubbi e le loro certezze. E qualche concessione alla modernità. Come quando nel bel mezzo di un esorcismo, a padre Lucas squilla il telefonino. E il prete addirittura risponde.
Ispirato alle esperienze di un sacerdote americano, padre Gary Thomas - la cui storia è stata raccontata dal giornalista Matt Baglio nel libro Il rito. Storia vera di un esorcista di oggi (Sperling & Kupfer) - il film segue le vicende del seminarista Michael Kovak (Colin O'Donoghue), inviato dai superiori a Roma per studiare l'esorcismo nonostante i suoi dubbi su questo rituale e, perfino, sulla sua stessa fede. Figlio di un impresario di pompe funebri (Rutger Hauer), il giovane non vede altra alternativa all'intraprendere lo stesso mestiere del padre se non quella di entrare in seminario nonostante non senta la vocazione. Con l'apparentemente impenetrabile corazza dello scetticismo, anche a Roma Michael non esita a sfidare l'insegnante invitandolo a rivolgersi alla psichiatria, anziché alla pratica dell'esorcismo, per trattare quanti si ritengono posseduti.
Persino quando è mandato come apprendista da padre Lucas (Anthony Hopkins) - un anziano esorcista dai metodi non proprio ortodossi e da un carattere brusco, al limite dell'ambiguo - e assiste ai primi riti il seminarista resta scettico. Salvo ricredersi quando gli indemoniati che incontra cominciano a raccontargli episodi di cui lui solo è a conoscenza. Guidato dall'esperto sacerdote, Michael (nome decisamente evocativo) inizia la sua personale discesa agli inferi che lo porterà a confrontarsi con una forza malefica tanto potente da travolgere lo stesso prete (Hopkins torna a incarnare il male dopo Il silenzio degli innocenti). Ogni certezza crolla e l'unica possibilità che resta è iniziare ad avere fede. D'altra parte padre Lucas aveva detto subito: "Scegliere di non credere nel diavolo non ti proteggerà da lui".
E forse sta proprio in questa frase il senso della storia: proporre la presenza del maligno contrapponendole la forza della fede. Il diavolo esiste, che ci si creda o meno, e opera subdolamente per avere il sopravvento.
Una realtà che alla Chiesa certo non sfugge. Gesù scacciava i demoni, insegnando agli apostoli a fare lo stesso nel suo nome, nella certezza che il male non avrà l'ultima parola (non praevalebunt). Semmai tale realtà sembra sfuggire a una società sempre più secolarizzata per la quale il peccato non esiste e parlare di diavolo e demoni vuol dire superstizione e oscurantismo, un ritorno al medioevo insomma. E così assume valore il dubbio di padre Lucas: "La cosa interessante degli scettici è che sono sempre in cerca di prove. La domanda è: se le trovassero, cosa cambierebbe sulla terra?".
Pur con tutti i cliché del genere, il film di Håfström è certo lontano dall'intensità narrativa ed emotiva del modello finora insuperato di Friedkin, ma è onesto e rispettoso. La Chiesa non viene rappresentata da figure che tuonano anatemi o dispensano dogmatiche certezze, presentate invariabilmente come antipatiche e irritanti, dunque insopportabili. E la stessa figura di sacerdote è delineata con tratti positivi. Anzi, proprio negli Stati Uniti Il rito è stato visto quasi come una sorta di spot a favore del sacerdozio. Nulla di nuovo, però: all'epoca anche L'esorcista fu accolto con un certo interesse dagli ambienti cattolici.
Alla fine il dubbioso e scettico seminarista Michael sceglie scientemente di essere prete. Il male non ha prevalso. La sua vicenda testimonia il potere della fede. L'ultima scena lo vede entrare nel confessionale. Rimettere i peccati è la sua nuova prima linea, la linea di fuoco della quotidiana, silenziosa lotta contro il maligno che abita il mondo.
Hollywood ogni tanto sente il bisogno di cimentarsi in storie in cui contrapporre direttamente il bene e il male, nel titanico e apocalittico scontro tra divino e demoniaco. Spesso però, cinematograficamente parlando, l'interpretazione dei fatti è molto libera, si punta sull'orrore, sempre in eccesso visto che al botteghino paga, lasciando così in secondo piano l'oggettività di una realtà - la possessione - già di suo agghiacciante. Allora, facendo la tara di ciò che è palesemente irreale, e che comunque qui resta meno esasperato che altrove, nonché di alcuni immancabili stereotipi e di altrettanto perdonabili incongruenze, Il rito riesce a mantenere una sufficiente credibilità. Se non altro nella psicologia dei personaggi, con i loro tanti dubbi e le loro certezze. E qualche concessione alla modernità. Come quando nel bel mezzo di un esorcismo, a padre Lucas squilla il telefonino. E il prete addirittura risponde.
Ispirato alle esperienze di un sacerdote americano, padre Gary Thomas - la cui storia è stata raccontata dal giornalista Matt Baglio nel libro Il rito. Storia vera di un esorcista di oggi (Sperling & Kupfer) - il film segue le vicende del seminarista Michael Kovak (Colin O'Donoghue), inviato dai superiori a Roma per studiare l'esorcismo nonostante i suoi dubbi su questo rituale e, perfino, sulla sua stessa fede. Figlio di un impresario di pompe funebri (Rutger Hauer), il giovane non vede altra alternativa all'intraprendere lo stesso mestiere del padre se non quella di entrare in seminario nonostante non senta la vocazione. Con l'apparentemente impenetrabile corazza dello scetticismo, anche a Roma Michael non esita a sfidare l'insegnante invitandolo a rivolgersi alla psichiatria, anziché alla pratica dell'esorcismo, per trattare quanti si ritengono posseduti.
Persino quando è mandato come apprendista da padre Lucas (Anthony Hopkins) - un anziano esorcista dai metodi non proprio ortodossi e da un carattere brusco, al limite dell'ambiguo - e assiste ai primi riti il seminarista resta scettico. Salvo ricredersi quando gli indemoniati che incontra cominciano a raccontargli episodi di cui lui solo è a conoscenza. Guidato dall'esperto sacerdote, Michael (nome decisamente evocativo) inizia la sua personale discesa agli inferi che lo porterà a confrontarsi con una forza malefica tanto potente da travolgere lo stesso prete (Hopkins torna a incarnare il male dopo Il silenzio degli innocenti). Ogni certezza crolla e l'unica possibilità che resta è iniziare ad avere fede. D'altra parte padre Lucas aveva detto subito: "Scegliere di non credere nel diavolo non ti proteggerà da lui".
E forse sta proprio in questa frase il senso della storia: proporre la presenza del maligno contrapponendole la forza della fede. Il diavolo esiste, che ci si creda o meno, e opera subdolamente per avere il sopravvento.
Una realtà che alla Chiesa certo non sfugge. Gesù scacciava i demoni, insegnando agli apostoli a fare lo stesso nel suo nome, nella certezza che il male non avrà l'ultima parola (non praevalebunt). Semmai tale realtà sembra sfuggire a una società sempre più secolarizzata per la quale il peccato non esiste e parlare di diavolo e demoni vuol dire superstizione e oscurantismo, un ritorno al medioevo insomma. E così assume valore il dubbio di padre Lucas: "La cosa interessante degli scettici è che sono sempre in cerca di prove. La domanda è: se le trovassero, cosa cambierebbe sulla terra?".
Pur con tutti i cliché del genere, il film di Håfström è certo lontano dall'intensità narrativa ed emotiva del modello finora insuperato di Friedkin, ma è onesto e rispettoso. La Chiesa non viene rappresentata da figure che tuonano anatemi o dispensano dogmatiche certezze, presentate invariabilmente come antipatiche e irritanti, dunque insopportabili. E la stessa figura di sacerdote è delineata con tratti positivi. Anzi, proprio negli Stati Uniti Il rito è stato visto quasi come una sorta di spot a favore del sacerdozio. Nulla di nuovo, però: all'epoca anche L'esorcista fu accolto con un certo interesse dagli ambienti cattolici.
Alla fine il dubbioso e scettico seminarista Michael sceglie scientemente di essere prete. Il male non ha prevalso. La sua vicenda testimonia il potere della fede. L'ultima scena lo vede entrare nel confessionale. Rimettere i peccati è la sua nuova prima linea, la linea di fuoco della quotidiana, silenziosa lotta contro il maligno che abita il mondo.
«L'Osservatore romano» del 13 marzo 2011
Nessun commento:
Posta un commento