Dal pamphlet di Hessel al cinema e al teatro: per la mentalità corrente viviamo in un mondo ingiusto a causa del liberismo. Ma è difficile trovare una società più democratica, ricca e tollerante della nostra
di Alessandro Gnocchi
Premessa. Non viviamo nel migliore dei mondi possibili. La libertà, il benessere e la giustizia non sono mai acquisite una volta per tutte. Il loro dominio può e deve essere esteso senza sosta.
Detto questo, qualcuno esagera nel senso opposto, dipingendo una società, quella occidentale, sempre sull’orlo dell’abisso. La democrazia? Ridotta a una parvenza, il fascismo è dietro l’angolo. La ricchezza? Ottenuta alle spalle di una parte del globo che non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Crescita, competizione e concorrenza? Un uragano che devasta l’uomo e il pianeta: meglio decrescere. L’economia? Il regno del più forte, puro darwinismo. L’uguaglianza? Inesistente, mai stato così ampio il solco fra ricco e povero, uomo e donna, uomo bianco ex colonialista e uomo nero ex colonizzato, Nord e Sud di casa nostra e dell’intero mondo. L’ambiente? Sfruttato fino al midollo da governi schiavi delle multinazionali dell’energia. L’informazione? Finita, uccisa dai monopoli, resiste giusto qualche blog indipendente.
Quindi, vista la situazione, Indignatevi!, come suggerisce il pamphlet d’alta classifica firmato da Stéphane Hessel, un caso editoriale in Francia (da noi esce per ADD editore, pagg. 62, euro 5). Hessel, classe 1917, protagonista della Resistenza francese, fra gli estensori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, non ha dubbi. Se siamo caduti tanto in basso, un motivo c’è. Questo: il capitalismo, descritto come «il potere dei soldi» che trascura l’interesse generale al fine di generare dividendi e stipendi vertiginosi per azionisti e dirigenti. Meglio sarebbe stato, secondo Hessel, mettere il sistema produttivo nelle mani dello Stato. Come sosteneva il programma della Resistenza: «il ritorno alla nazione dei grandi mezzi di produzione monopolizzati - frutto del lavoro collettivo -, delle fonti di energia, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie d’assicurazione e delle grandi banche».
La mentalità contraria al libero mercato dispone di ottima stampa. Ieri Repubblica dedicava una pagina all’ultimo saggio di Luciano Gallino, Finanzcapitalismo (Einaudi), in cui, tra un distinguo e l’altro, si annunciava la necessità di uscire «dal pensiero unico neo-liberale» ritenuto responsabile della crisi scoppiata nel 2008 e della trasformazione dei cittadini in «robot o in esuberi». In «servo-meccanismi» di una macchina che prospera alle loro spalle. Qualche tempo fa, il Corriere elogiava caldamente un libro di Ermanno Rea, La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli) in cui, dopo aver menato fendenti agli italiani in piena decadenza morale, si vagheggia un’economia virtuosa, «alternativa alla competizione capitalistica», e «un mercato sottratto al feticismo delle merci, all’imperativo dei consumi e dello spreco illimitato».
E potremmo proseguire con altre novità librarie. Per lo psichiatra Vittorino Andreoli (Il denaro in testa, Rizzoli) il denaro ha creato il mercato dell’etica, cancellando ogni comportamento civile. Al punto che l’autore si chiede «se non si debba istituire anche una psichiatria dell’economia o almeno della finanza, ma questo è un tema ancora troppo recente, perché la psichiatria si occupi dei singoli e non ancora delle malattie sociali e della follia collettiva».
Se da libri e giornali passassimo al cinema, troveremmo lo stesso scenario, dal Gioiellino dedicato al caso Parmalat, in cui Tanzi risulta essere quasi vittima del sistema capitalistico, al sequel di Wall Street passando per Margin Call, uno dei film di punta dell’ultimo festival di Berlino. E a teatro grandi lodi per La compagnia degli uomini di Edward Bond, pagine e pagine di presentazione sul Sole 24 Ore, tesi di fondo: il libero mercato «ha distrutto la nostra cultura». Olè.
Gli apocalittici evitano però di rispondere a una domanda: nel corso della storia quale altra civiltà è stata libera, democratica e rispettosa dei diritti umani quanto la nostra, perfettibile quanto si vuole ma fondata sul libero mercato?
Detto questo, qualcuno esagera nel senso opposto, dipingendo una società, quella occidentale, sempre sull’orlo dell’abisso. La democrazia? Ridotta a una parvenza, il fascismo è dietro l’angolo. La ricchezza? Ottenuta alle spalle di una parte del globo che non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena. Crescita, competizione e concorrenza? Un uragano che devasta l’uomo e il pianeta: meglio decrescere. L’economia? Il regno del più forte, puro darwinismo. L’uguaglianza? Inesistente, mai stato così ampio il solco fra ricco e povero, uomo e donna, uomo bianco ex colonialista e uomo nero ex colonizzato, Nord e Sud di casa nostra e dell’intero mondo. L’ambiente? Sfruttato fino al midollo da governi schiavi delle multinazionali dell’energia. L’informazione? Finita, uccisa dai monopoli, resiste giusto qualche blog indipendente.
Quindi, vista la situazione, Indignatevi!, come suggerisce il pamphlet d’alta classifica firmato da Stéphane Hessel, un caso editoriale in Francia (da noi esce per ADD editore, pagg. 62, euro 5). Hessel, classe 1917, protagonista della Resistenza francese, fra gli estensori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, non ha dubbi. Se siamo caduti tanto in basso, un motivo c’è. Questo: il capitalismo, descritto come «il potere dei soldi» che trascura l’interesse generale al fine di generare dividendi e stipendi vertiginosi per azionisti e dirigenti. Meglio sarebbe stato, secondo Hessel, mettere il sistema produttivo nelle mani dello Stato. Come sosteneva il programma della Resistenza: «il ritorno alla nazione dei grandi mezzi di produzione monopolizzati - frutto del lavoro collettivo -, delle fonti di energia, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie d’assicurazione e delle grandi banche».
La mentalità contraria al libero mercato dispone di ottima stampa. Ieri Repubblica dedicava una pagina all’ultimo saggio di Luciano Gallino, Finanzcapitalismo (Einaudi), in cui, tra un distinguo e l’altro, si annunciava la necessità di uscire «dal pensiero unico neo-liberale» ritenuto responsabile della crisi scoppiata nel 2008 e della trasformazione dei cittadini in «robot o in esuberi». In «servo-meccanismi» di una macchina che prospera alle loro spalle. Qualche tempo fa, il Corriere elogiava caldamente un libro di Ermanno Rea, La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli) in cui, dopo aver menato fendenti agli italiani in piena decadenza morale, si vagheggia un’economia virtuosa, «alternativa alla competizione capitalistica», e «un mercato sottratto al feticismo delle merci, all’imperativo dei consumi e dello spreco illimitato».
E potremmo proseguire con altre novità librarie. Per lo psichiatra Vittorino Andreoli (Il denaro in testa, Rizzoli) il denaro ha creato il mercato dell’etica, cancellando ogni comportamento civile. Al punto che l’autore si chiede «se non si debba istituire anche una psichiatria dell’economia o almeno della finanza, ma questo è un tema ancora troppo recente, perché la psichiatria si occupi dei singoli e non ancora delle malattie sociali e della follia collettiva».
Se da libri e giornali passassimo al cinema, troveremmo lo stesso scenario, dal Gioiellino dedicato al caso Parmalat, in cui Tanzi risulta essere quasi vittima del sistema capitalistico, al sequel di Wall Street passando per Margin Call, uno dei film di punta dell’ultimo festival di Berlino. E a teatro grandi lodi per La compagnia degli uomini di Edward Bond, pagine e pagine di presentazione sul Sole 24 Ore, tesi di fondo: il libero mercato «ha distrutto la nostra cultura». Olè.
Gli apocalittici evitano però di rispondere a una domanda: nel corso della storia quale altra civiltà è stata libera, democratica e rispettosa dei diritti umani quanto la nostra, perfettibile quanto si vuole ma fondata sul libero mercato?
«Il Giornale» del 9 marzo 2011
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