di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria, Dal testo alla storia. Dalla storia al testo, vol. 3/2 (Svevo e Pirandello. Edizione modulare, pp. 101-105)
1. II vitalismo. I testi narrativi e drammatici di Pirandello insistono continuamente, con un arrovellio talora ossessivo, su alcuni nodi concettuali. Prima di esaminare direttamente l'opera nel suo sviluppo cronologico, è necessario dunque tentare di ricostruire il sistema delle idee che la sostanziano. Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, che è affine a quella di varia filosofie contemporanee (in particolare quella di Henri Bergson, teorico dello «slancio vitale», e quella di Georg Simmel): la realtà tutta è «vita», «perpetuo movimento vitale», inteso come eterno divenire, incessante trasformazione da uno stato all'altro, «flusso continuo, incandescente, indistinto», come lo scorrere di un magma vulcanico. Tutto ciò che si stacca da questo flusso, e assume «forma» distinta e individuale, si rapprende, si irrigidisce, comincia, secondo Pirandello, a «morire». Così avviene dell'identità personale dell'uomo. In realtà noi non siamo che par-te indistinta nell'«universale ed eterno fluire» della «vita», ma tendiamo a cristallizzarci in forme individuali, a fissarci in una realtà che noi stessi ci diamo, in una personalità che vogliamo coerente e unitaria. In realtà questa personalità è un'illusione e scaturisce solo dal sentimento soggettivo che noi abbiamo del mondo, che proietta intorno a noi come un cerchio di luce e ci separa fittiziamente dal resto della vita, che resta al buio.
Non solo noi stessi, però, ci fissiamo in una «forma». Anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare ci danno determinate «forme». Noi crediamo di essere «uno» per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ad esempio un individuo può crearsi di se stesso l'immagine gratificante dell'onesto lavoratore, del buon padre di famiglia, mentre gli altri magari lo fissano senza rimedio nel ruolo dell'ambizioso senza scrupoli o dell'adultero. Ciascuna di queste «forme» è una costruzione fittizia, una «maschera» che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera non c'è un volto definito, immutabile: non c'è «nessuno», o meglio vi è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione, per cui un istante più tardi non siamo più quelli che eravamo prima. Pirandello fu influenzato dalle teorie dello psicologo Alfred Binet sulle alterazioni della personalità, ed era convinto che nell'uomo coesistessero più persone, ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente; condusse quindi una critica serrata al concetto di identità personale, di «io», su cui si era fondata una lunga tradizione filosofica ed a cui si appellava abitualmente la coscienza comune.
Questa teoria della frantumazione dell'io in una congerie di stati incoerenti, in continua trasformazione, senza un vero centro e senza un punto di riferimento fisso, è un dato storicamente significativo: nella civiltà novecentesca entra in crisi sia l'idea di una realtà oggettiva, organica, definita, ordinata, univocamente interpretabile con gli schemi della ragione, sia di un soggetto "forte", unitario, coerente, punto di riferimento sicuro di ogni rapporto con la realtà. L'io si disgrega, si smarrisce, si perde, i suoi confini si fanno labili, la sua consistenza si sfalda, nel naufragio di tutte le certezze. La crisi dell'idea di identità e di persona risente evidentemente dei grandi processi in atto nella realtà contemporanea, dove si muovono forze che tendono proprio alla frantumazione e alla negazione dell'individuo. Come si è visto, è questo il periodo dell'affermarsi di tendenze spersonalizzanti nella società: l'instaurarsi del capitale monopolistico, che annulla l'iniziativa individuale e nega la persona in grandi apparati produttivi anonimi; l'espandersi della grande industria e dell'uso delle macchine, che meccanizzano l'esistenza dell'uomo e riducono il singolo a insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, priva di relazioni e priva di coscienza; la creazione di sterminati apparati burocratici, che sortiscono effetti analoghi, annullando l'individuo in quanto tale, cancellando la sua interiorità e riducendolo alla sua pura funzione esteriore; il formarsi delle grandi metropoli moderne, in cui l'uomo smarrisce il legame personale cogli altri e diviene una particella isolata e alienata nella folla anonima. L'idea classica dell'individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, dalla personalità inconfondibile e coerente, che era rimasta alla base della cultura della borghesia ottocentesca nel suo momento di ascesa, ora tramonta: in una prima fase questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi progressivamente anche questa finisce per sfaldarsi; l'individuo non conta più, l'io si indebolisce, perde la sua identità, si frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello è uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette lucidamente nelle sue teorie e nelle sue costruzioni letterarie.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell'io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L'avvertire di non essere «nessuno», l'impossibilità di consistere in un'identità, provoca angoscia ed orrore, genera un senso di solitudine tremenda. Viceversa l'individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in «forme» in cui non può riconoscersi. L'uomo si «vede vivere», si esamina dall'esterno, come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua «maschera», la sua «parte», e che appaiono assurdi, destituiti di ogni senso. Queste «forme» sono sentite come una «trappola», come un «carcere» in cui l'individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti sociali, al di sotto della civiltà e delle buone maniere (tanto che un critico, Giovanni Macchia, ha potuto parlare della condizione tipica dei personaggi pirandelliani come di una «stanza della tortura»). La società gli appare come un'«enorme pupazzata», una costruzione artificiosa e fittizia, che isola irreparabilmente l'uomo dalla «vita», lo impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte anche se egli apparentemente continua a vivere.
Alla base di tutta l'opera pirandelliana si può scorgere un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, e un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Anche se la sua vita si svolge sui binari del perbenismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società, contro cui scaglia la sua critica impietosa e corrosiva. Le convenzioni, le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere e le «parti» fittizie che essa impone, vengono nella sua opera narrativa e teatrale irrise e disgregate.
Il campione di società su cui l'opera distruttiva di Pirandello si esercita è la compagine sociale dell'Italia giolittiana e postbellica: in particolare, nelle novelle e nei romanzi la critica di Pirandello si appunta sulla condizione piccolo borghese e sulla sua angustia soffocante, mentre il teatro predilige ambienti alto borghesi. L'istituto in cui si manifesta per eccellenza la «trappola» della «forma» che imprigiona l'uomo, separandolo dall'immediatezza della «vita», è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere opprimente dell'ambiente familiare, il suo grigiore avvilente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita degli affetti viscerali ed oscuri. L'altra «trappola» è quella economica, costituita dalla condizione sociale e dal lavoro, almeno a livello piccolo borghese: i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti, di un'organizzazione gerarchica oppressiva. Da questa «trappola» non si dà per Pirandello una via d'uscita storica: il suo pessimismo è totale, non gli consente di vedere altre forme di società diverse. Per lui è la società in quanto tale, in assoluto, che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale. La sua critica feroce delle istituzioni borghesi resta perciò puramente negativa, non propone alternative, anzi, ideologicamente si accompagna a posizioni fortemente conservatrici, se non reazionarie. Pirandello non ricerca le cause storiche per cui la società è una «trappola» mortificante: la società borghese del suo tempo che egli indaga non è per lui che lo specimen particolare di una condizione metafisica, universale. L'unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale: nell'immaginazione che trasporta verso un "altrove" fantastico, come per l'impiegato Belluca di Il treno ha fischiato, che sogna paesi lontani e attraverso questa evasione può sopportare l'oppressione del suo lavoro di contabile e della famiglia, composta di tre cieche, due figliole vedove con sette nipoti da mantenere; oppure nella follia, che è lo strumento di contestazione per eccellenza, in Pirandello, delle forme fasulle della vita sociale, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza (si pensi agli eroi di Enrico IV o di Uno, nessuno e centomila).
Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell'opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: il «forestiere della vita», colui che «ha capito il giuoco», ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall'esterno della vita e dall'alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua «parte», osservando gli uomini imprigionati dalla «trappola» con un atteggiamento «umoristico», di irrisione e pietà (vedremo presto il senso profondo dell'«umorismo» pirandelliano). È quella che Pirandello definisce anche «filosofia del lontano»: essa consiste nel contemplare la realtà come da un'infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l'abitudine ci fa considerare "normale", e in modo quindi da coglierne l'inconsistenza, l'assurdità, la mancanza totale di senso. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli altri intellettuali del primo Novecento (pur risentendo delle loro inquietudini e del loro ribellismo), e, nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida coscienza critica del reale.
2. Il relativismo conoscitivo. Oltre che sulla visione della società, dal vitalismo pirandelliano scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo. Se la realtà è magmatica, in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti, onnicomprensivi. Ogni immagine globaie che pretenda di sistemarla organicamente non è che una proiezione soggettiva. Il reale è multiforme, polivalente, non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservarlo; al contrario le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti. Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo: non si dà una verità oggettiva fissata a priori, una volta per tutte. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un'inevitabile incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi, perché ciascuno fa riferimento alla realtà com'è per lui, e non sa né può sapere come sia per gli altri, proietta nelle parole che pronuncia il suo mondo soggettivo, che gli altri non possono indovinare. Questa incomunicabilità accresce il senso di solitudine dell'individuo che si scopre «nessuno», mette ulteriormente in crisi la possibilità di rapporti sociali e contribuisce a svelarne il carattere convenzionale e fittizio.
La perdita di fiducia nella possibilità di sistemare il reale in precisi moduli d'ordine, il relativismo conoscitivo, il soggettivismo assoluto collegano Pirandello a quel clima culturale europeo del primo Novecento in cui si consuma la crisi delle certezze positivistiche, della fiducia in una conoscenza oggettiva della realtà mediante gli strumenti della razionalità scientifica. La posizione di Pirandello, sia per quanto riguarda questa crisi gnoseologica sia per il suo vitalismo irrazionalistico, viene quindi abitualmente fatta rientrare nell'ambito di quello che si suole definire Decadentismo. Se però prendiamo la categoria nell'accezione più rigorosa e ristretta e consideriamo fondamentalmente il Decadentismo come una seconda fase del clima culturale romantico, allora per vari aspetti Pirandello appare già al di fuori di esso. Alla base del Decadentismo, così inteso, vi è una condizione spirituale sostanzialmente mistica, imperniata sulla fiducia in un ordine misterioso che unisce tutta la realtà, compreso il soggetto umano, in una fitta rete di «corrispondenze», in un sistema di analogie universali che collegano io e mondo in una totalità univocamente interpretabile; per cui si può dare l’«epifania» dell'assoluto: in momenti privilegiati l'Essere può rivelare, in forme ineffabili, il suo senso riposto; uno slancio di partecipazione mistica può portare il soggetto nel cuore della realtà, a cogliere la sua essenza ultima. Di qui scaturisce il legame organico tra uomo e realtà, l'antropomorfizzazione della natura (come abbiamo visto in Pascoli e D'Annunzio). Nel dettaglio minimo si può sentire il palpito della vita universale. Per Pirandello invece, come ha persuasivamente mostrato Romano Luperini, un'essenza ultima non si dà più, per cui non sono più possibili miracolose epifanie, rivelatrici di un nucleo nascosto dell'Essere. La realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Il particolare non vibra della vita universale, ma è semplicemente una particella isolata, perché un Tutto non esiste. Lungi dal cercare l'identificazione con l'essenza, non resta che prendere atto dell'incoerenza e della mancanza di senso del reale. Questa radicale apertura della visione del mondo, questa crisi della totalità collocano Pirandello già oltre il Decadentismo, in un clima tipicamente novecentesco. Così avviene per la crisi dell'io. Il Decadentismo, come già il Romanticismo, nella sua fuga da una realtà storica negativa, che portava alla chiusura gelosa nella soggettività, poneva l'io al centro del mondo, o meglio, identificava sostanzialmente il mondo con l'io. Per Pirandello questa assolutizzazione del soggetto è impossibile; l'io si frantuma, si annulla anch'esso in una serie di frammenti incoerenti. Se per il Romanticismo e il Decadentismo l'interiorità era il centro del reale, sede dell'esperienza originaria dell'Essere, ora questo centro scompare, il soggetto da entità assoluta diviene «nessuno» (questo vale per il Pirandello della fase centrale, mentre curiosamente proprio l'ultimo Pirandello, nella fase dei «miti» degli anni Trenta, riprenderà istanze misticheggianti).
3. La poetica: l'«umorismo». Dalla visione complessiva del mondo scaturiscono anche la concezione dell'arte e la poetica di Pirandello. Possiamo trovarle enunciate in vari saggi, tra cui il più importante e il più famoso è L'umorismo, che risale al 1908. Si tratta di un testo chiave per penetrare nell'universo pirandelliano, come ha sempre riconosciuto la critica. Il volume si compone di una parte storica, in cui l'autore esamina varie manifestazioni dell'arte umoristica, e di una parte teorica, in cui viene definito il concetto stesso di umorismo. L'opera d'arte, secondo Pirandello, nasce «dal libero movimento della vita interiore»; la riflessione, al momento della concezione, resta invisibile, è quasi una forma del sentimento. Nell'opera umoristica invece la riflessione non si nasconde, non è una forma del sentimento, ma si pone dinanzi ad esso come un giudice, lo analizza e lo scompone. Di qui nasce il «sentimento del contrario», che è il tratto caratterizzante l'umorismo per Pirandello. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo «avvertimento del contrario» è il comico. Ma se interviene la riflessione, e suggerisce che quella signora soffre a pararsi così e lo fa solo nell'illusione di poter trattenere l'amore del marito più giovane, non posso più solo ridere: dall'«avvertimento del contrario», cioè dal comico, passo al «sentimento del contrario», cioè all'atteggiamento umoristico. La riflessione nell'arte umoristica coglie così il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente. Se coglie il ridicolo di una persona, di un fatto, ne individua anche il fondo dolente, di umana sofferenza, e lo guarda con pietà; o viceversa, se si trova di fronte al serio e al tragico, non può evitare di fare emergere anche il ridicolo. In una realtà multiforme e polivalente, tragico e comico vanno sempre insieme, il comico è come l'ombra che non può mai essere disgiunta dal corpo del tragico.
Nel saggio, Pirandello afferma che l'umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la definizione che egli ne propone si attaglia perfettamente all'arte contemporanea, nata dalla grande crisi novecentesca. Si tratta di un'arte riflessa, sempre accompagnata da una lucida consapevolezza di se stessa, che si strania nel suo farsi, si sdoppia, si autocontempla, non può mai coincidere interamente con una prospettiva univoca, ma deve sempre vedere l'oggetto anche dal punto di vista opposto. È un'arte «fuori di chiave», come la definisce Pirandello con una metafora musicale, cioè disarmonica e piena di continue dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo opposto, in cui lo scrittore da un lato crea e dall'altro critica e scompagina ciò che ha creato. È un'arte che non costruisce immagini armoniche, unitarie e ordinate del mondo, ma tende a scomporre, a disgregare, a fare emergere stridori, incoerenze e contrasti. È l'arte moderna per eccellenza, perché riflette la coscienza di un mondo non più ordinato ma frantumato, in cui non vi sono più prospettive privilegiate e punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni laceranti. E quindi un'arte eminentemente critica, che dissolve luoghi comuni e abitudini di pensiero radicate, che costringe a vedere la realtà da prospettive inedite, stranianti, capaci di far saltare comodi e rassicuranti sistemi di certezze.
Oltre ad essere una definizione dell'arte moderna, è questa soprattutto una definizione della poetica di Pirandello stesso, del suo programma artistico. Le sue opere, le novelle, i romanzi, i drammi (se si eccettua forse l'ultima produzione, quella dei «miti»), sono tutti testi «umoristici», in cui tragico e comico, riso e serietà sono indissolubilmente mescolati, da cui non emerge alcuna visione ordinata e armonica della realtà, ma il senso di un mondo frantumato, polivalente, al limite dell'assurdo. È stato notato come la teoria e la pratica pirandelliane dell'«umorismo» presentino singolari coincidenze con la concezione della «polifonia» di Michail Bachtin. Anche Bachtin vede nell'opera polifonica (che però egli identifica essenzialmente con la forma del romanzo) una pluralità di prospettive diverse, autonome da quella dell'autore, che si affermano in piena libertà, anche contraddicendosi fra loro, parlando con più «voci» che si intersecano. Per Bachtin l'arte polifonica è intimamente legata alla tradizione della letteratura «carnevalesca», in cui il comico interviene costantemente a rovesciare ciò che è serio: il riso «ambivalente» non esclude «la serietà, ma la purifica e la completa», la libera dal dogmatismo, dalla sclerosi, «dalla fissazione nefasta e uni-laterale». Evidentemente ciò che Bachtin chiama «comico» è affine all'«umorismo» pirandelliano. E significativo come due grandi interpreti della coscienza novecentesca, in luoghi diversi e indipendentemente l'uno dall'altro, ma in anni non poi così lontani (la prima versione del libro di Bachtin su Dostoievskij, in cui viene elaborata la teoria della «polifonia», è del 1929), abbiano proposto immagini analoghe dell'opera letteraria.
Non solo noi stessi, però, ci fissiamo in una «forma». Anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la sua prospettiva particolare ci danno determinate «forme». Noi crediamo di essere «uno» per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda. Ad esempio un individuo può crearsi di se stesso l'immagine gratificante dell'onesto lavoratore, del buon padre di famiglia, mentre gli altri magari lo fissano senza rimedio nel ruolo dell'ambizioso senza scrupoli o dell'adultero. Ciascuna di queste «forme» è una costruzione fittizia, una «maschera» che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale. Sotto questa maschera non c'è un volto definito, immutabile: non c'è «nessuno», o meglio vi è un fluire indistinto e incoerente di stati in perenne trasformazione, per cui un istante più tardi non siamo più quelli che eravamo prima. Pirandello fu influenzato dalle teorie dello psicologo Alfred Binet sulle alterazioni della personalità, ed era convinto che nell'uomo coesistessero più persone, ignote a lui stesso, che possono emergere inaspettatamente; condusse quindi una critica serrata al concetto di identità personale, di «io», su cui si era fondata una lunga tradizione filosofica ed a cui si appellava abitualmente la coscienza comune.
Questa teoria della frantumazione dell'io in una congerie di stati incoerenti, in continua trasformazione, senza un vero centro e senza un punto di riferimento fisso, è un dato storicamente significativo: nella civiltà novecentesca entra in crisi sia l'idea di una realtà oggettiva, organica, definita, ordinata, univocamente interpretabile con gli schemi della ragione, sia di un soggetto "forte", unitario, coerente, punto di riferimento sicuro di ogni rapporto con la realtà. L'io si disgrega, si smarrisce, si perde, i suoi confini si fanno labili, la sua consistenza si sfalda, nel naufragio di tutte le certezze. La crisi dell'idea di identità e di persona risente evidentemente dei grandi processi in atto nella realtà contemporanea, dove si muovono forze che tendono proprio alla frantumazione e alla negazione dell'individuo. Come si è visto, è questo il periodo dell'affermarsi di tendenze spersonalizzanti nella società: l'instaurarsi del capitale monopolistico, che annulla l'iniziativa individuale e nega la persona in grandi apparati produttivi anonimi; l'espandersi della grande industria e dell'uso delle macchine, che meccanizzano l'esistenza dell'uomo e riducono il singolo a insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, priva di relazioni e priva di coscienza; la creazione di sterminati apparati burocratici, che sortiscono effetti analoghi, annullando l'individuo in quanto tale, cancellando la sua interiorità e riducendolo alla sua pura funzione esteriore; il formarsi delle grandi metropoli moderne, in cui l'uomo smarrisce il legame personale cogli altri e diviene una particella isolata e alienata nella folla anonima. L'idea classica dell'individuo creatore del proprio destino e dominatore del proprio mondo, dalla personalità inconfondibile e coerente, che era rimasta alla base della cultura della borghesia ottocentesca nel suo momento di ascesa, ora tramonta: in una prima fase questi processi inducono a rifiutare la realtà oggettiva e a chiudersi gelosamente nella soggettività, ma poi progressivamente anche questa finisce per sfaldarsi; l'individuo non conta più, l'io si indebolisce, perde la sua identità, si frantuma in una serie di stati incoerenti. Pirandello è uno degli interpreti più acuti di questi fenomeni, e li riflette lucidamente nelle sue teorie e nelle sue costruzioni letterarie.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell'io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. L'avvertire di non essere «nessuno», l'impossibilità di consistere in un'identità, provoca angoscia ed orrore, genera un senso di solitudine tremenda. Viceversa l'individuo soffre anche ad essere fissato dagli altri in «forme» in cui non può riconoscersi. L'uomo si «vede vivere», si esamina dall'esterno, come sdoppiato, nel compiere gli atti abituali che gli impone la sua «maschera», la sua «parte», e che appaiono assurdi, destituiti di ogni senso. Queste «forme» sono sentite come una «trappola», come un «carcere» in cui l'individuo si dibatte, lottando invano per liberarsi. Pirandello ha un senso acutissimo della crudeltà che domina i rapporti sociali, al di sotto della civiltà e delle buone maniere (tanto che un critico, Giovanni Macchia, ha potuto parlare della condizione tipica dei personaggi pirandelliani come di una «stanza della tortura»). La società gli appare come un'«enorme pupazzata», una costruzione artificiosa e fittizia, che isola irreparabilmente l'uomo dalla «vita», lo impoverisce e lo irrigidisce, lo conduce alla morte anche se egli apparentemente continua a vivere.
Alla base di tutta l'opera pirandelliana si può scorgere un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, e un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Anche se la sua vita si svolge sui binari del perbenismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società, contro cui scaglia la sua critica impietosa e corrosiva. Le convenzioni, le finzioni su cui la vita sociale si fonda, le maschere e le «parti» fittizie che essa impone, vengono nella sua opera narrativa e teatrale irrise e disgregate.
Il campione di società su cui l'opera distruttiva di Pirandello si esercita è la compagine sociale dell'Italia giolittiana e postbellica: in particolare, nelle novelle e nei romanzi la critica di Pirandello si appunta sulla condizione piccolo borghese e sulla sua angustia soffocante, mentre il teatro predilige ambienti alto borghesi. L'istituto in cui si manifesta per eccellenza la «trappola» della «forma» che imprigiona l'uomo, separandolo dall'immediatezza della «vita», è la famiglia. Pirandello è acutissimo nel cogliere il carattere opprimente dell'ambiente familiare, il suo grigiore avvilente, le tensioni segrete, gli odi, i rancori, le ipocrisie, le menzogne che si mescolano torbidamente alla vita degli affetti viscerali ed oscuri. L'altra «trappola» è quella economica, costituita dalla condizione sociale e dal lavoro, almeno a livello piccolo borghese: i suoi eroi sono prigionieri di una condizione misera e stentata, di lavori monotoni e frustranti, di un'organizzazione gerarchica oppressiva. Da questa «trappola» non si dà per Pirandello una via d'uscita storica: il suo pessimismo è totale, non gli consente di vedere altre forme di società diverse. Per lui è la società in quanto tale, in assoluto, che è condannabile, in quanto negazione del movimento vitale. La sua critica feroce delle istituzioni borghesi resta perciò puramente negativa, non propone alternative, anzi, ideologicamente si accompagna a posizioni fortemente conservatrici, se non reazionarie. Pirandello non ricerca le cause storiche per cui la società è una «trappola» mortificante: la società borghese del suo tempo che egli indaga non è per lui che lo specimen particolare di una condizione metafisica, universale. L'unica via di relativa salvezza che si dà ai suoi eroi è la fuga nell'irrazionale: nell'immaginazione che trasporta verso un "altrove" fantastico, come per l'impiegato Belluca di Il treno ha fischiato, che sogna paesi lontani e attraverso questa evasione può sopportare l'oppressione del suo lavoro di contabile e della famiglia, composta di tre cieche, due figliole vedove con sette nipoti da mantenere; oppure nella follia, che è lo strumento di contestazione per eccellenza, in Pirandello, delle forme fasulle della vita sociale, l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza (si pensi agli eroi di Enrico IV o di Uno, nessuno e centomila).
Il rifiuto della vita sociale dà luogo nell'opera pirandelliana ad una figura ricorrente, emblematica: il «forestiere della vita», colui che «ha capito il giuoco», ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere gli altri dall'esterno della vita e dall'alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua «parte», osservando gli uomini imprigionati dalla «trappola» con un atteggiamento «umoristico», di irrisione e pietà (vedremo presto il senso profondo dell'«umorismo» pirandelliano). È quella che Pirandello definisce anche «filosofia del lontano»: essa consiste nel contemplare la realtà come da un'infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l'abitudine ci fa considerare "normale", e in modo quindi da coglierne l'inconsistenza, l'assurdità, la mancanza totale di senso. In questa figura di eroe estraniato dalla realtà si proietta la condizione stessa di Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli altri intellettuali del primo Novecento (pur risentendo delle loro inquietudini e del loro ribellismo), e, nel suo pessimismo radicale, si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida coscienza critica del reale.
2. Il relativismo conoscitivo. Oltre che sulla visione della società, dal vitalismo pirandelliano scaturiscono importanti conseguenze sul piano conoscitivo. Se la realtà è magmatica, in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d'ordine totalizzanti, onnicomprensivi. Ogni immagine globaie che pretenda di sistemarla organicamente non è che una proiezione soggettiva. Il reale è multiforme, polivalente, non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservarlo; al contrario le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti. Caratteristico della visione pirandelliana è dunque un radicale relativismo conoscitivo: non si dà una verità oggettiva fissata a priori, una volta per tutte. Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva un'inevitabile incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi, perché ciascuno fa riferimento alla realtà com'è per lui, e non sa né può sapere come sia per gli altri, proietta nelle parole che pronuncia il suo mondo soggettivo, che gli altri non possono indovinare. Questa incomunicabilità accresce il senso di solitudine dell'individuo che si scopre «nessuno», mette ulteriormente in crisi la possibilità di rapporti sociali e contribuisce a svelarne il carattere convenzionale e fittizio.
La perdita di fiducia nella possibilità di sistemare il reale in precisi moduli d'ordine, il relativismo conoscitivo, il soggettivismo assoluto collegano Pirandello a quel clima culturale europeo del primo Novecento in cui si consuma la crisi delle certezze positivistiche, della fiducia in una conoscenza oggettiva della realtà mediante gli strumenti della razionalità scientifica. La posizione di Pirandello, sia per quanto riguarda questa crisi gnoseologica sia per il suo vitalismo irrazionalistico, viene quindi abitualmente fatta rientrare nell'ambito di quello che si suole definire Decadentismo. Se però prendiamo la categoria nell'accezione più rigorosa e ristretta e consideriamo fondamentalmente il Decadentismo come una seconda fase del clima culturale romantico, allora per vari aspetti Pirandello appare già al di fuori di esso. Alla base del Decadentismo, così inteso, vi è una condizione spirituale sostanzialmente mistica, imperniata sulla fiducia in un ordine misterioso che unisce tutta la realtà, compreso il soggetto umano, in una fitta rete di «corrispondenze», in un sistema di analogie universali che collegano io e mondo in una totalità univocamente interpretabile; per cui si può dare l’«epifania» dell'assoluto: in momenti privilegiati l'Essere può rivelare, in forme ineffabili, il suo senso riposto; uno slancio di partecipazione mistica può portare il soggetto nel cuore della realtà, a cogliere la sua essenza ultima. Di qui scaturisce il legame organico tra uomo e realtà, l'antropomorfizzazione della natura (come abbiamo visto in Pascoli e D'Annunzio). Nel dettaglio minimo si può sentire il palpito della vita universale. Per Pirandello invece, come ha persuasivamente mostrato Romano Luperini, un'essenza ultima non si dà più, per cui non sono più possibili miracolose epifanie, rivelatrici di un nucleo nascosto dell'Essere. La realtà non è più una totalità organica, ma si sfalda in una pluralità di frammenti che non hanno un senso complessivo. Il particolare non vibra della vita universale, ma è semplicemente una particella isolata, perché un Tutto non esiste. Lungi dal cercare l'identificazione con l'essenza, non resta che prendere atto dell'incoerenza e della mancanza di senso del reale. Questa radicale apertura della visione del mondo, questa crisi della totalità collocano Pirandello già oltre il Decadentismo, in un clima tipicamente novecentesco. Così avviene per la crisi dell'io. Il Decadentismo, come già il Romanticismo, nella sua fuga da una realtà storica negativa, che portava alla chiusura gelosa nella soggettività, poneva l'io al centro del mondo, o meglio, identificava sostanzialmente il mondo con l'io. Per Pirandello questa assolutizzazione del soggetto è impossibile; l'io si frantuma, si annulla anch'esso in una serie di frammenti incoerenti. Se per il Romanticismo e il Decadentismo l'interiorità era il centro del reale, sede dell'esperienza originaria dell'Essere, ora questo centro scompare, il soggetto da entità assoluta diviene «nessuno» (questo vale per il Pirandello della fase centrale, mentre curiosamente proprio l'ultimo Pirandello, nella fase dei «miti» degli anni Trenta, riprenderà istanze misticheggianti).
3. La poetica: l'«umorismo». Dalla visione complessiva del mondo scaturiscono anche la concezione dell'arte e la poetica di Pirandello. Possiamo trovarle enunciate in vari saggi, tra cui il più importante e il più famoso è L'umorismo, che risale al 1908. Si tratta di un testo chiave per penetrare nell'universo pirandelliano, come ha sempre riconosciuto la critica. Il volume si compone di una parte storica, in cui l'autore esamina varie manifestazioni dell'arte umoristica, e di una parte teorica, in cui viene definito il concetto stesso di umorismo. L'opera d'arte, secondo Pirandello, nasce «dal libero movimento della vita interiore»; la riflessione, al momento della concezione, resta invisibile, è quasi una forma del sentimento. Nell'opera umoristica invece la riflessione non si nasconde, non è una forma del sentimento, ma si pone dinanzi ad esso come un giudice, lo analizza e lo scompone. Di qui nasce il «sentimento del contrario», che è il tratto caratterizzante l'umorismo per Pirandello. Lo scrittore propone un esempio: se vedo una vecchia signora coi capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora dovrebbe essere. Questo «avvertimento del contrario» è il comico. Ma se interviene la riflessione, e suggerisce che quella signora soffre a pararsi così e lo fa solo nell'illusione di poter trattenere l'amore del marito più giovane, non posso più solo ridere: dall'«avvertimento del contrario», cioè dal comico, passo al «sentimento del contrario», cioè all'atteggiamento umoristico. La riflessione nell'arte umoristica coglie così il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permette di vederla da diverse prospettive contemporaneamente. Se coglie il ridicolo di una persona, di un fatto, ne individua anche il fondo dolente, di umana sofferenza, e lo guarda con pietà; o viceversa, se si trova di fronte al serio e al tragico, non può evitare di fare emergere anche il ridicolo. In una realtà multiforme e polivalente, tragico e comico vanno sempre insieme, il comico è come l'ombra che non può mai essere disgiunta dal corpo del tragico.
Nel saggio, Pirandello afferma che l'umorismo si trova nella letteratura di tutti i tempi, ma in realtà la definizione che egli ne propone si attaglia perfettamente all'arte contemporanea, nata dalla grande crisi novecentesca. Si tratta di un'arte riflessa, sempre accompagnata da una lucida consapevolezza di se stessa, che si strania nel suo farsi, si sdoppia, si autocontempla, non può mai coincidere interamente con una prospettiva univoca, ma deve sempre vedere l'oggetto anche dal punto di vista opposto. È un'arte «fuori di chiave», come la definisce Pirandello con una metafora musicale, cioè disarmonica e piena di continue dissonanze, in cui ogni pensiero genera sempre contemporaneamente il suo opposto, in cui lo scrittore da un lato crea e dall'altro critica e scompagina ciò che ha creato. È un'arte che non costruisce immagini armoniche, unitarie e ordinate del mondo, ma tende a scomporre, a disgregare, a fare emergere stridori, incoerenze e contrasti. È l'arte moderna per eccellenza, perché riflette la coscienza di un mondo non più ordinato ma frantumato, in cui non vi sono più prospettive privilegiate e punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni laceranti. E quindi un'arte eminentemente critica, che dissolve luoghi comuni e abitudini di pensiero radicate, che costringe a vedere la realtà da prospettive inedite, stranianti, capaci di far saltare comodi e rassicuranti sistemi di certezze.
Oltre ad essere una definizione dell'arte moderna, è questa soprattutto una definizione della poetica di Pirandello stesso, del suo programma artistico. Le sue opere, le novelle, i romanzi, i drammi (se si eccettua forse l'ultima produzione, quella dei «miti»), sono tutti testi «umoristici», in cui tragico e comico, riso e serietà sono indissolubilmente mescolati, da cui non emerge alcuna visione ordinata e armonica della realtà, ma il senso di un mondo frantumato, polivalente, al limite dell'assurdo. È stato notato come la teoria e la pratica pirandelliane dell'«umorismo» presentino singolari coincidenze con la concezione della «polifonia» di Michail Bachtin. Anche Bachtin vede nell'opera polifonica (che però egli identifica essenzialmente con la forma del romanzo) una pluralità di prospettive diverse, autonome da quella dell'autore, che si affermano in piena libertà, anche contraddicendosi fra loro, parlando con più «voci» che si intersecano. Per Bachtin l'arte polifonica è intimamente legata alla tradizione della letteratura «carnevalesca», in cui il comico interviene costantemente a rovesciare ciò che è serio: il riso «ambivalente» non esclude «la serietà, ma la purifica e la completa», la libera dal dogmatismo, dalla sclerosi, «dalla fissazione nefasta e uni-laterale». Evidentemente ciò che Bachtin chiama «comico» è affine all'«umorismo» pirandelliano. E significativo come due grandi interpreti della coscienza novecentesca, in luoghi diversi e indipendentemente l'uno dall'altro, ma in anni non poi così lontani (la prima versione del libro di Bachtin su Dostoievskij, in cui viene elaborata la teoria della «polifonia», è del 1929), abbiano proposto immagini analoghe dell'opera letteraria.
Postato il 10 marzo 2011
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