Dal catalogo della mostra «Alle radici dell’identità nazionale. Italia nazione culturale» (ed. Gangemi) anticipiamo uno stralcio del saggio introduttivo di Marcello Veneziani che ha curato l’opera e la mostra con Marco Pizzo, direttore dell’Istituto storico del Risorgimento. La mostra sarà inaugurata oggi alle 12, al Vittoriano dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Stasera per la notte tricolore, Giordano Bruno Guerri (ore 21) e Veneziani (ore 22.30) terranno all’Archivio storico capitolino due lectio magistralis su storia e controstoria dell’unità d’Italia
di Marcello Veneziani
L’Italia non è un Paese qualunque e lo ha sempre saputo. Gli italiani hanno avvertito nei secoli il peso della speciale diversità nazionale, a volte godendola come una benedizione, a volte subendola come una maledizione, comunque vivendola come un’eccezione. È raro pensare l’Italia all’interno di una normalità e di un canone generale; l’Italia è sempre stata percepita al suo interno e spesso anche al suo esterno, come qualcosa di meno e di più di una nazione tra le altre. Euforiche esaltazioni e deprimenti esterofilìe accompagnano il Paese da secoli; primati morali e civili giobertiani e sconfortate critiche gobettiane e azioniste da «esuli in patria»; elogi nazionalistici di stampo gentiliano e scettici scoramenti di stampo prezzoliniano hanno tracciato un’andatura a zig zag tra i due estremi.
Le polarità entro cui si esprime la percezione dell’Italia, si potrebbero ricondurre alla linea arcitaliana, secondo la definizione di Curzio Malaparte, e alla linea antitaliana, espressa dal Giovanni Amendola di Quest’Italia non ci piace; due linee che hanno attraversato la cultura civile e politica, ma anche letteraria e filosofica italiana, almeno dai tempi di Labriola e Salvemini ai tempi di Montanelli e oltre. La percezione onesta e veritiera d’Italia si ricava facendo la media tra le due linee opposte e radicali che sovrastimano e sottostimano l’identità italiana, pur esprimendo ambedue una forte passione civile e un alto grado di verità. Dal Dopoguerra in poi l’identificazione dell’amor patrio con il nazionalismo e il fascismo ha ulteriormente scavato dopo la guerra un fossato di rimozione patriottica e di negazione identitaria che ha pervaso per lunghi decenni la cultura, la vita civile e l’auto-rappresentazione dell’Italia repubblicana. Veniamo da decenni di amnesia dell’amor patrio.
La risposta è stata il tentativo di rifugiarsi in macro-identità sovranazionali, come l’Occidente, la Chiesa e l’Europa, l’affiliazione ideologica e mentale al modello americano e alla protezione atlantica o al modello sovietico e all’internazionale socialista; il trincerarsi nelle piccole patrie di partito, nei movimenti e sindacati di massa. O le fughe esotiche in patriottismi remoti, relegati in regni del passato o in regimi e leader lontani dall’Europa. Gli italiani sono stati per lungo tempo voyeurs delle patrie altrui, hanno amato e desiderato la patria d’altri. Perfino il sogno di una gita a Chiasso, come scriveva Arbasino, è servito per mimetizzare l’esterofilia o l’italofobia nel più rassicurante ed efficiente ordine svizzero a due passi da casa. Una forma di emigrazione interiore o dispatrio, per dirla con Luigi Meneghello, ha spesso accompagnato questa fuga dall’identità italiana. L’auto-denigrazione, e meno frequentemente l’auto-esaltazione, costituiscono così i flussi psicologici alternati che fanno da base all’ormai proverbiale anomalìa italiana, diversamente intesa e declinata.
Cento anni fa, in occasione del cinquantennale dell’Unità d’Italia toccò a Pascoli tessere l’elogio solenne della Grande Italia in occasione della nascita del Vittoriano, nel giugno del 1911. Quel cinquantenario fu vissuto come un giubileo civile, l’anno santo della patria che celebrava il suo Altare. Il mito letterario e civile dell’identità italiana era allora assai vivo, anche grazie all’impronta lasciata da Carducci e da Oriani e all’opera di d’Annunzio, De Amicis e dello stesso Pascoli. Curiosamente non parteciparono alle sue celebrazioni solenni le tre forze politiche che saranno poi basilari nella repubblica italiana e nella nostra Costituzione: i cattolici, i repubblicani e i socialisti. Di tutt’altro segno fu la celebrazione del centenario, il 1961. Un Paese prosperoso e ottimista, nel boom economico e demografico, accolse svogliatamente le celebrazioni che ebbero un’intonazione prevalentemente cattolica, lasciando a Torino il compito di ricordare con più enfasi storica e civile l’evento risorgimentale. Democristiani erano in quell’anno il presidente della Repubblica, Gronchi, il capo del governo, Fanfani, e il presidente del comitato per le celebrazioni, Pella. E fresca era la benedizione che Giovanni XXIII aveva dato alla «provvidenziale» unità d’Italia e a Roma sua capitale, vista fino allora in cagnesco, come un abuso e uno sfregio alla Chiesa.
Ora l’occasione del suo compleanno, i 150 anni, è propizia per ripensare l’Italia, la sua identità, la sua nascita, le sue origini e il suo sviluppo nel nostro tempo e dopo i travagli del Novecento. Una particolare vivacità ha assunto il dibattito sull’identità italiana per la tentazione ricorrente alla disunione, che assume a Nord i tratti della secessione e a Sud le forme della disaffezione o della pubblicistica anti-risorgimentale, con strascico di polemiche anti-unitarie in ambo i versanti. Paradossalmente sono state queste polemiche anti-unitarie a riproporre in modo non scontato e retorico il tema dell’Italia unita e delle sue radici. Avremmo seguito la stanca china delle stucchevoli cerimonie, cadute nell’assordante silenzio del Paese - sommerso tra il globale e il locale, il tribale e il privato - se non ci fossero state quelle riletture polemiche, quei contrasti, a ridare smalto e passione alla questione dell’unità nazionale.
Il tema peculiare della mostra sulle radici dell’identità italiana è questo: l’Italia è - unica al mondo - una nazione culturale. La sua storia politica e civile, la sua storia militare e territoriale, è preceduta e sovrastata dalla sua storia culturale. L’Italia sorge come nazione culturale, non nasce dalle armi e dal potere, ma dal suo vivere e creare. L’unico principe italiano che abbia conquistato il mondo non è un condottiero ma un’opera letteraria: è Il Principe di Machiavelli. L’Italia è un’identità geo-culturale prima che storica; arte, lingua e pensiero. L’italianità è un’indole prima di essere una cittadinanza; è un carattere, una mentalità, più che un’appartenenza a un sistema pubblico. Con ragione, Pasquale Stanislao Mancini nel 1851 in una prolusione all’Università di Torino sulla «nazionalità come diritto delle genti», parlò di «personalità nazionale»: l’Italia resta una delle personalità nazionali più spiccate al mondo.
Le polarità entro cui si esprime la percezione dell’Italia, si potrebbero ricondurre alla linea arcitaliana, secondo la definizione di Curzio Malaparte, e alla linea antitaliana, espressa dal Giovanni Amendola di Quest’Italia non ci piace; due linee che hanno attraversato la cultura civile e politica, ma anche letteraria e filosofica italiana, almeno dai tempi di Labriola e Salvemini ai tempi di Montanelli e oltre. La percezione onesta e veritiera d’Italia si ricava facendo la media tra le due linee opposte e radicali che sovrastimano e sottostimano l’identità italiana, pur esprimendo ambedue una forte passione civile e un alto grado di verità. Dal Dopoguerra in poi l’identificazione dell’amor patrio con il nazionalismo e il fascismo ha ulteriormente scavato dopo la guerra un fossato di rimozione patriottica e di negazione identitaria che ha pervaso per lunghi decenni la cultura, la vita civile e l’auto-rappresentazione dell’Italia repubblicana. Veniamo da decenni di amnesia dell’amor patrio.
La risposta è stata il tentativo di rifugiarsi in macro-identità sovranazionali, come l’Occidente, la Chiesa e l’Europa, l’affiliazione ideologica e mentale al modello americano e alla protezione atlantica o al modello sovietico e all’internazionale socialista; il trincerarsi nelle piccole patrie di partito, nei movimenti e sindacati di massa. O le fughe esotiche in patriottismi remoti, relegati in regni del passato o in regimi e leader lontani dall’Europa. Gli italiani sono stati per lungo tempo voyeurs delle patrie altrui, hanno amato e desiderato la patria d’altri. Perfino il sogno di una gita a Chiasso, come scriveva Arbasino, è servito per mimetizzare l’esterofilia o l’italofobia nel più rassicurante ed efficiente ordine svizzero a due passi da casa. Una forma di emigrazione interiore o dispatrio, per dirla con Luigi Meneghello, ha spesso accompagnato questa fuga dall’identità italiana. L’auto-denigrazione, e meno frequentemente l’auto-esaltazione, costituiscono così i flussi psicologici alternati che fanno da base all’ormai proverbiale anomalìa italiana, diversamente intesa e declinata.
Cento anni fa, in occasione del cinquantennale dell’Unità d’Italia toccò a Pascoli tessere l’elogio solenne della Grande Italia in occasione della nascita del Vittoriano, nel giugno del 1911. Quel cinquantenario fu vissuto come un giubileo civile, l’anno santo della patria che celebrava il suo Altare. Il mito letterario e civile dell’identità italiana era allora assai vivo, anche grazie all’impronta lasciata da Carducci e da Oriani e all’opera di d’Annunzio, De Amicis e dello stesso Pascoli. Curiosamente non parteciparono alle sue celebrazioni solenni le tre forze politiche che saranno poi basilari nella repubblica italiana e nella nostra Costituzione: i cattolici, i repubblicani e i socialisti. Di tutt’altro segno fu la celebrazione del centenario, il 1961. Un Paese prosperoso e ottimista, nel boom economico e demografico, accolse svogliatamente le celebrazioni che ebbero un’intonazione prevalentemente cattolica, lasciando a Torino il compito di ricordare con più enfasi storica e civile l’evento risorgimentale. Democristiani erano in quell’anno il presidente della Repubblica, Gronchi, il capo del governo, Fanfani, e il presidente del comitato per le celebrazioni, Pella. E fresca era la benedizione che Giovanni XXIII aveva dato alla «provvidenziale» unità d’Italia e a Roma sua capitale, vista fino allora in cagnesco, come un abuso e uno sfregio alla Chiesa.
Ora l’occasione del suo compleanno, i 150 anni, è propizia per ripensare l’Italia, la sua identità, la sua nascita, le sue origini e il suo sviluppo nel nostro tempo e dopo i travagli del Novecento. Una particolare vivacità ha assunto il dibattito sull’identità italiana per la tentazione ricorrente alla disunione, che assume a Nord i tratti della secessione e a Sud le forme della disaffezione o della pubblicistica anti-risorgimentale, con strascico di polemiche anti-unitarie in ambo i versanti. Paradossalmente sono state queste polemiche anti-unitarie a riproporre in modo non scontato e retorico il tema dell’Italia unita e delle sue radici. Avremmo seguito la stanca china delle stucchevoli cerimonie, cadute nell’assordante silenzio del Paese - sommerso tra il globale e il locale, il tribale e il privato - se non ci fossero state quelle riletture polemiche, quei contrasti, a ridare smalto e passione alla questione dell’unità nazionale.
Il tema peculiare della mostra sulle radici dell’identità italiana è questo: l’Italia è - unica al mondo - una nazione culturale. La sua storia politica e civile, la sua storia militare e territoriale, è preceduta e sovrastata dalla sua storia culturale. L’Italia sorge come nazione culturale, non nasce dalle armi e dal potere, ma dal suo vivere e creare. L’unico principe italiano che abbia conquistato il mondo non è un condottiero ma un’opera letteraria: è Il Principe di Machiavelli. L’Italia è un’identità geo-culturale prima che storica; arte, lingua e pensiero. L’italianità è un’indole prima di essere una cittadinanza; è un carattere, una mentalità, più che un’appartenenza a un sistema pubblico. Con ragione, Pasquale Stanislao Mancini nel 1851 in una prolusione all’Università di Torino sulla «nazionalità come diritto delle genti», parlò di «personalità nazionale»: l’Italia resta una delle personalità nazionali più spiccate al mondo.
«Il Giornale» del 16 marzo 2011
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