di Baldi-Giusso-Razetti-Zaccaria
(analisi tratta dal volume Dal testo alla storia. dalla storia al testo. Edizione gialla, volume III, tomo secondo/a, pp. 314-316)
Il rapporto con il padre è essenziale per gli «inetti» sveviani: essi sono tali proprio perché non possono più coincidere con un'immagine "paterna", virile, solida e sicura, perché non riescono più ad introiettarla, a trasformarla in componente della propria personalità, a causa di ragioni non solo individuali ma storiche, la crisi dell'individuo borghese che caratterizza questo periodo (su cui spesso ci siamo indugiati, nei capitoli su D'Annunzio e Pascoli, e su cui dovremo ancora fermarci per Pirandello). Gli eroi di Svevo perciò sono sempre in conflitto con figure "paterne" antagonistiche, che rappresentano (più apparentemente che realmente, in verità) il contrario della loro inettitudine e debolezza: Alfonso Nitti con Maller, Emilio Brentani con Balli. Qui il conflitto si apre proprio tra Zeno e il padre "anagrafico".
Il ritratto del padre. Nel primo passo trascritto dal capitolo viene presentato un ritratto del padre e viene offerta una ricostruzione del conflitto del figlio con lui. E un ritratto che, pur dietro le mascherature dell'affetto filiale, appare cattivo, corrosivo, e rivela tutti gli impulsi aggressivi profondi del personaggio-narratore. Come suggerisce Elio Gioanola (autore di una delle più penetranti analisi psicanalitiche dell'opera sveviana), non si tratta neppure propriamente di ambivalenza, cioè di una mescolanza inconscia di amore e odio, ma di odio puro, che l'io narrante cerca ostinatamente di mascherare, ma invano. Si può cogliere di qui la radice dell'inettitudine particolare di Zeno rispetto agli altri personaggi sveviani, suoi «fratelli carnali»: Zeno vuole inconsciamente essere inetto per contrapporsi al padre borghese e alle sue solide, incrollabili certezze, mai sottoposte al dubbio critico (si pensi solo alla riluttanza del padre ad accettare che la terra sia in movimento, all'immagine stupenda della nausea che lo prende al pensare agli antipodi a testa in giù). Accentuare la propria inconcludenza, la propria bizzarria, la propria diversità dall'universo della normalità borghese è per Zeno un modo per aggredire simbolicamente, per ferire il padre, che di quell'universo è un campione esemplare. Gli impulsi aggressivi inevitabilmente si scatenano in occasione della malattia del padre, che lo priva della sua forza e del suo potere simbolici, lo trasforma in un essere debole e indifeso. Dietro lo sgomento e il dolore di Zeno affiora continuamente il desiderio che il padre muoia.
Naturalmente Zeno rifiuta di ammettere alla coscienza questi impulsi, li rimuove, cerca disperatamente di affermare, ai propri stessi occhi, la propria innocenza, la mancanza di ogni colpa. Zeno, sia come narratore della storia (che racconta ormai a distanza di anni), sia come attore di essa, si costruisce sistematicamente alibi e autoinganni. La conseguenza è che egli offre una prospettiva del tutto inattendibile. Non possiamo mai prendere per buone le sue affermazioni. Intravediamo più o meno confusamente i conflitti che si celano dietro le sue proteste d'amor filiale, ma il racconto non ci offre alcuna fonte sicura, alcun punto di riferimento fisso per stabilire con definitiva certezza la verità. E quanto ci viene suggerito, proprio sulla soglia del romanzo, dalla prefazione del dottor S., che ci avverte delle tante «verità» e «bugie» che si trovano nelle pagine scritte da Zeno. Tutto ciò introduce nel racconto un elemento di ambiguità, di indeterminatezza: non c'è nulla che intervenga a smentire le affermazioni sospette di Zeno e a ristabilire la verità oggettiva, come avveniva in Una vita e in Senilità, grazie agli interventi del narratore eterodiegetico. Non è quindi possibile smascherare definitivamente Zeno, rovesciare semplicemente le sue affermazioni per avere la verità. «Verità» e «bugie» non sono separabili, sono indissolubilmente fuse nella stessa pagina, nella stessa frase, nella stessa parola. Così, se Zeno sostiene «io rappresentavo la forza e lui la debolezza», non possiamo solo sorriderne e capovolgere tranquillamente l'affermazione. Ciò che Zeno dice è falso, ma è anche vero. Quella pretesa «forza» del buon borghese, chiuso nell'orizzonte limitato delle sue convinzioni e dei suoi princìpi, non è vera forza, non è «salute», per usare una categoria cara a Svevo (e a Zeno), ma «malattia». C'è più avanti nel romanzo una considerazione illuminante di Zeno: «Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi. Bisogna muoversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri». La chiusura dei cosiddetti "sani" nel loro angusto mondo, la cristallizzata immobilità delle persone "normali", è in realtà un «veleno» che li inquina. Sono essi i veri malati. L'inetto, nella sua instabilità continua, è paradossalmente più immune da quel male, più "sano". Perciò se Zeno mente, distorce, rimuove, mistifica il suo punto di vista, oggettivamente, proprio in quanto egli è estraneo e irriducibile al mondo dei "sani" e dei "normali", funziona da strumento straniante, corrode quel ristretto, soffocante universo borghese, ne mina alle basi le certezze indiscusse. Anche Zeno, certo, è parte del mondo borghese che è sottoposto a critica, e ne presenta alcuni vistosi limiti, come il non saper vedere chiaramente se stesso, ma, in quanto inetto, porta a chiarezza la realtà degli altri, l'inconsistenza della loro pretesa sanità. Nel momento in cui mistifica il senso dei suoi comportamenti, come avviene qui nei rapporti col padre, offre la chiave per vedere più a fondo la realtà umana e sociale che lo circonda: il ritratto del padre è un'analisi critica mirabilmente acuta e penetrante dei limiti del mondo borghese. Zeno, a differenza di Alfonso ed Emilio, non è solo oggetto di critica, ma in certo modo anche soggetto.
Un sostituto del padre: il dottore. I meccanismi individuati funzionano anche nel passo dedicato al dottor Coprosich. Questi è un evidente sostituto del padre, rappresenta una superiorità autorevole, indagatrice (i suoi «occhi terribili»): Zeno ha paura che quegli occhi frughino al fondo del suo animo e scoprano quel segreto che egli non vuole confessare neppure a se stesso, gli impulsi aggressivi e omicidi verso il padre. Per questo trasferisce nel dottore il conflitto, e ciò è all'origine del suo ostinato, inesauribile odio nei suoi confronti, che non si placa neppure a distanza di anni. Non gli si può presumibilmente credere quando afferma che, nel momento in cui scrive, il «rimorso» è scomparso, e che parla ormai con la freddezza con cui parlerebbe di avvenimenti accaduti ad un estraneo: è un evidente tentativo di rimozione. L'antipatia verso il dottor Coprosich che «si ostina a vivere» è un indizio eloquente del permanere del senso di colpa nei confronti del padre e degli impulsi omicidi nei confronti del medico, divenuto suo sostituto. Di nuovo però, nonostante le sue mistificazioni, il punto di vista del "malato" Zeno funziona come corrosivo strumento straniante su ciò che lo circonda: e la vittima in questo caso è proprio quel dottore che, tetragono com'è nelle sue certezze scientifiche positivistiche, risulta un altro bel campione di rigidezza e di immobilità borghese, cioè del «veleno» che «inquina» come un'intima malattia quel mondo.
Lo schiaffo del padre. La sequenza famosa e mirabile dello schiaffo paterno mostra ancora esemplarmente i meccanismi delle mistificazioni di Zeno. Nella sua confusione mentale il padre ha la sensazione che il figlio gli voglia togliere l'aria: inconsciamente avverte cioè la corrente di odio aggressivo che c'è in lui, e lo schiaffo ne è la coerente conseguenza. Naturalmente il fatto scatena terribili sensi di colpa in Zeno che, dinanzi a questa terribile immagine paterna, regredisce alla condizione di «bambino punito» e si affanna a protestare la propria innocenza, disperandosi perché la morte del padre gli impedisce ormai di provargliela. La figura del padre morto è una perfetta proiezione del suo senso di colpa: è tutta filtrata attraverso l'ottica e i sentimenti dello Zeno attore che vive i fatti (con la partecipazione emotiva del narratore che racconta a distanza di tempo). Lo dimostra l'insistenza sugli attributi paterni, la chioma bianca, il corpo «superbo e minaccioso», le «mani grandi, potenti», «pronte ad afferrare e punire»: sono i sensi di colpa dell'osservatore che caricano la figura del morto di questi connotati di immagine paterna terribile, punitiva, castratrice. Subito poi scattano i meccanismi della rimozione e dell'innocentizzazione: la coscienza, ad esorcizzare quella figura, ne erige un'altra antitetica e consolante, il padre «debole e buono», e per tacitare i sensi di colpa Zeno rimuove tutti gli impulsi aggressivi, si adatta al ruolo infantile della debolezza nei confronti del padre, e così può arrivare all'obiettivo rassicurante di sentirsi «buono, buono». Si scorge di qui la conoscenza della psicanalisi che è propria di Svevo e la funzione essenziale che essa riveste nella Coscienza. Non importa, come hanno osservato degli specialisti, che tale conoscenza tecnicamente presenti delle lacune: è il senso profondo della psicanalisi che Svevo ha colto e trasferito nel suo romanzo. Ciò non toglie che nei confronti di essa Svevo abbia delle riserve: è convinto che la psicanalisi sia uno strumento formidabile «per i romanzieri» (come scrive in una lettera del 1927), cioè uno strumento conoscitivo, ma ne rifiuta le pretese terapeutiche, che tendono a modificare il nostro «intimo io», quella natura che, proprio in quanto malata, è una nostra ricchezza.
Il ritratto del padre. Nel primo passo trascritto dal capitolo viene presentato un ritratto del padre e viene offerta una ricostruzione del conflitto del figlio con lui. E un ritratto che, pur dietro le mascherature dell'affetto filiale, appare cattivo, corrosivo, e rivela tutti gli impulsi aggressivi profondi del personaggio-narratore. Come suggerisce Elio Gioanola (autore di una delle più penetranti analisi psicanalitiche dell'opera sveviana), non si tratta neppure propriamente di ambivalenza, cioè di una mescolanza inconscia di amore e odio, ma di odio puro, che l'io narrante cerca ostinatamente di mascherare, ma invano. Si può cogliere di qui la radice dell'inettitudine particolare di Zeno rispetto agli altri personaggi sveviani, suoi «fratelli carnali»: Zeno vuole inconsciamente essere inetto per contrapporsi al padre borghese e alle sue solide, incrollabili certezze, mai sottoposte al dubbio critico (si pensi solo alla riluttanza del padre ad accettare che la terra sia in movimento, all'immagine stupenda della nausea che lo prende al pensare agli antipodi a testa in giù). Accentuare la propria inconcludenza, la propria bizzarria, la propria diversità dall'universo della normalità borghese è per Zeno un modo per aggredire simbolicamente, per ferire il padre, che di quell'universo è un campione esemplare. Gli impulsi aggressivi inevitabilmente si scatenano in occasione della malattia del padre, che lo priva della sua forza e del suo potere simbolici, lo trasforma in un essere debole e indifeso. Dietro lo sgomento e il dolore di Zeno affiora continuamente il desiderio che il padre muoia.
Naturalmente Zeno rifiuta di ammettere alla coscienza questi impulsi, li rimuove, cerca disperatamente di affermare, ai propri stessi occhi, la propria innocenza, la mancanza di ogni colpa. Zeno, sia come narratore della storia (che racconta ormai a distanza di anni), sia come attore di essa, si costruisce sistematicamente alibi e autoinganni. La conseguenza è che egli offre una prospettiva del tutto inattendibile. Non possiamo mai prendere per buone le sue affermazioni. Intravediamo più o meno confusamente i conflitti che si celano dietro le sue proteste d'amor filiale, ma il racconto non ci offre alcuna fonte sicura, alcun punto di riferimento fisso per stabilire con definitiva certezza la verità. E quanto ci viene suggerito, proprio sulla soglia del romanzo, dalla prefazione del dottor S., che ci avverte delle tante «verità» e «bugie» che si trovano nelle pagine scritte da Zeno. Tutto ciò introduce nel racconto un elemento di ambiguità, di indeterminatezza: non c'è nulla che intervenga a smentire le affermazioni sospette di Zeno e a ristabilire la verità oggettiva, come avveniva in Una vita e in Senilità, grazie agli interventi del narratore eterodiegetico. Non è quindi possibile smascherare definitivamente Zeno, rovesciare semplicemente le sue affermazioni per avere la verità. «Verità» e «bugie» non sono separabili, sono indissolubilmente fuse nella stessa pagina, nella stessa frase, nella stessa parola. Così, se Zeno sostiene «io rappresentavo la forza e lui la debolezza», non possiamo solo sorriderne e capovolgere tranquillamente l'affermazione. Ciò che Zeno dice è falso, ma è anche vero. Quella pretesa «forza» del buon borghese, chiuso nell'orizzonte limitato delle sue convinzioni e dei suoi princìpi, non è vera forza, non è «salute», per usare una categoria cara a Svevo (e a Zeno), ma «malattia». C'è più avanti nel romanzo una considerazione illuminante di Zeno: «Già credo che in qualunque punto dell'universo ci si stabilisca si finisce coll'inquinarsi. Bisogna muoversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri». La chiusura dei cosiddetti "sani" nel loro angusto mondo, la cristallizzata immobilità delle persone "normali", è in realtà un «veleno» che li inquina. Sono essi i veri malati. L'inetto, nella sua instabilità continua, è paradossalmente più immune da quel male, più "sano". Perciò se Zeno mente, distorce, rimuove, mistifica il suo punto di vista, oggettivamente, proprio in quanto egli è estraneo e irriducibile al mondo dei "sani" e dei "normali", funziona da strumento straniante, corrode quel ristretto, soffocante universo borghese, ne mina alle basi le certezze indiscusse. Anche Zeno, certo, è parte del mondo borghese che è sottoposto a critica, e ne presenta alcuni vistosi limiti, come il non saper vedere chiaramente se stesso, ma, in quanto inetto, porta a chiarezza la realtà degli altri, l'inconsistenza della loro pretesa sanità. Nel momento in cui mistifica il senso dei suoi comportamenti, come avviene qui nei rapporti col padre, offre la chiave per vedere più a fondo la realtà umana e sociale che lo circonda: il ritratto del padre è un'analisi critica mirabilmente acuta e penetrante dei limiti del mondo borghese. Zeno, a differenza di Alfonso ed Emilio, non è solo oggetto di critica, ma in certo modo anche soggetto.
Un sostituto del padre: il dottore. I meccanismi individuati funzionano anche nel passo dedicato al dottor Coprosich. Questi è un evidente sostituto del padre, rappresenta una superiorità autorevole, indagatrice (i suoi «occhi terribili»): Zeno ha paura che quegli occhi frughino al fondo del suo animo e scoprano quel segreto che egli non vuole confessare neppure a se stesso, gli impulsi aggressivi e omicidi verso il padre. Per questo trasferisce nel dottore il conflitto, e ciò è all'origine del suo ostinato, inesauribile odio nei suoi confronti, che non si placa neppure a distanza di anni. Non gli si può presumibilmente credere quando afferma che, nel momento in cui scrive, il «rimorso» è scomparso, e che parla ormai con la freddezza con cui parlerebbe di avvenimenti accaduti ad un estraneo: è un evidente tentativo di rimozione. L'antipatia verso il dottor Coprosich che «si ostina a vivere» è un indizio eloquente del permanere del senso di colpa nei confronti del padre e degli impulsi omicidi nei confronti del medico, divenuto suo sostituto. Di nuovo però, nonostante le sue mistificazioni, il punto di vista del "malato" Zeno funziona come corrosivo strumento straniante su ciò che lo circonda: e la vittima in questo caso è proprio quel dottore che, tetragono com'è nelle sue certezze scientifiche positivistiche, risulta un altro bel campione di rigidezza e di immobilità borghese, cioè del «veleno» che «inquina» come un'intima malattia quel mondo.
Lo schiaffo del padre. La sequenza famosa e mirabile dello schiaffo paterno mostra ancora esemplarmente i meccanismi delle mistificazioni di Zeno. Nella sua confusione mentale il padre ha la sensazione che il figlio gli voglia togliere l'aria: inconsciamente avverte cioè la corrente di odio aggressivo che c'è in lui, e lo schiaffo ne è la coerente conseguenza. Naturalmente il fatto scatena terribili sensi di colpa in Zeno che, dinanzi a questa terribile immagine paterna, regredisce alla condizione di «bambino punito» e si affanna a protestare la propria innocenza, disperandosi perché la morte del padre gli impedisce ormai di provargliela. La figura del padre morto è una perfetta proiezione del suo senso di colpa: è tutta filtrata attraverso l'ottica e i sentimenti dello Zeno attore che vive i fatti (con la partecipazione emotiva del narratore che racconta a distanza di tempo). Lo dimostra l'insistenza sugli attributi paterni, la chioma bianca, il corpo «superbo e minaccioso», le «mani grandi, potenti», «pronte ad afferrare e punire»: sono i sensi di colpa dell'osservatore che caricano la figura del morto di questi connotati di immagine paterna terribile, punitiva, castratrice. Subito poi scattano i meccanismi della rimozione e dell'innocentizzazione: la coscienza, ad esorcizzare quella figura, ne erige un'altra antitetica e consolante, il padre «debole e buono», e per tacitare i sensi di colpa Zeno rimuove tutti gli impulsi aggressivi, si adatta al ruolo infantile della debolezza nei confronti del padre, e così può arrivare all'obiettivo rassicurante di sentirsi «buono, buono». Si scorge di qui la conoscenza della psicanalisi che è propria di Svevo e la funzione essenziale che essa riveste nella Coscienza. Non importa, come hanno osservato degli specialisti, che tale conoscenza tecnicamente presenti delle lacune: è il senso profondo della psicanalisi che Svevo ha colto e trasferito nel suo romanzo. Ciò non toglie che nei confronti di essa Svevo abbia delle riserve: è convinto che la psicanalisi sia uno strumento formidabile «per i romanzieri» (come scrive in una lettera del 1927), cioè uno strumento conoscitivo, ma ne rifiuta le pretese terapeutiche, che tendono a modificare il nostro «intimo io», quella natura che, proprio in quanto malata, è una nostra ricchezza.
Postato il 23 marzo 2011
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