Giovanni reale indaga il motto dell'oracolo
di Giovanni Reale
Sul preciso significato che la scritta «Conosci te stesso» comunicava a chi entrava nel tempio di Delfi per avere rapporto con Apollo e con il suo Oracolo, gli studiosi hanno raggiunto un sostanziale accordo di fondo: Apollo invitava l’uomo a riconoscere la propria limitatezza e finitezza, e, quindi, esortava a mettersi in rapporto col dio, appunto sulla base di questa precisa consapevolezza. Dunque, a chi entrava nel tempio di Delfi veniva detto quanto segue: «Uomo, ricordati che sei un mortale e che, come tale, tu ti avvicini al dio immortale». Il senso del messaggio delfico verrà più volte ripreso e ribadito dai poeti, in particolare da Pindaro e dai tragici. Ma è stato Socrate (preceduto da Eraclito, almeno a livello embrionale) a portare il motto a livello filosofico, facendone un asse portante del proprio pensiero. L’uomo conosce se stesso rendendosi conto che la sua natura specifica consiste nella propria psyché, e che, quindi, il suo compito supremo è la cura dell’anima. Nell’Apologia di Socrate Platone riassume in modo mirabile il nucleo del pensiero socratico: «Non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e con maggiore impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile [...]. La virtù non nasce dalle ricchezze, ma dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini». Su una linea in parte differente si colloca Plutarco nel suo scritto La E di Delfi. Sappiamo che sulla facciata del tempio apollineo di Delfi era appesa una grande «E», accanto al motto «Conosci te stesso». Gli archeologi non hanno saputo interpretare in modo convincente tale simbolo. L’interpretazione che presenta Plutarco è la più forte e la più toccante, anche se non è certa. La «E» indicherebbe « Ei », che vuol dire Tu «sei», e significherebbe il modo più adeguato e compiuto da parte dell’uomo di porgere il saluto al dio, prima di entrare nel tempio.
La risposta al motto «Conosci te stesso» con Tu «sei», significherebbe questo: tu solo sei l’Essere che è e non perisce, mentre noi siamo apparenza di essere.
Risultano ben evidenti le due linee secondo le quali è stato inteso filosoficamente il «Conosci te stesso»: 1) quella socratica che tende soprattutto a sottolineare la finitezza dell’uomo rispetto a Dio e al divino, e che quindi esorta per l’uomo a tener conto, in tutto ciò che pensa e che fa, di questa sua «finitezza» e di conseguenza a superare la propria hybris; 2) quella iniziata da Platone e sviluppata dai Neoplatonici, che nel «Conosci te stesso» cerca di fare emergere il più possibile la tangenza della parte più elevata dell’uomo (l’intelligenza della sua anima) con il divino. Ebbene, nel corso di ben quindici secoli si nota la netta preminenza della seconda linea. Clemente, per esempio, pur indicando nel «Conosci te stesso» un riconoscimento da parte dell’uomo della propria pochezza dal punto di vista ontologico e anche la coscienza dell’essere peccatore, indica in esso una ricerca dell’affinità con Dio. In Origene il «Conosci te stesso» contenuto nel versetto «Nisi cognoveris te» del Cantico dei cantici è inteso come un richiamo alla consapevolezza dell’anima dell’uomo di essere un’«immagine di Dio», con le conseguenze che questo comporta. In Gregorio Nazianzo la tangenza dell’uomo con il divino è incentrata sul logos. Analoghi concetti si leggono in Ambrogio, il quale sostiene, facendo sempre riferimento ai versetti del Cantico dei cantici, che la bellezza dell’anima dipende dalla somiglianza con Dio, e che tale bellezza, se ci si allontana da Dio, viene perduta. Anche in Agostino resta basilare l’idea dell’anima come immagine di Dio, e proprio su di essa si incentra la ben nota tesi della necessità del rientrare in se stessi per trovare Dio. Va comunque messo in rilievo il fatto che, in vario modo, i pensatori cristiani mettono in evidenza anche l’aspetto della «limitazione» dell’uomo. Ugo di san Vittore, per esempio, mette bene in evidenza che l’uomo si conosce solo rendendosi conto di essere un ente creato. E san Bernardo in particolare nella sua opera De gradibus humilitatis et sapientiae connette in modo stretto la conoscenza di sé con l’umiltà e quindi con la consapevolezza che l’uomo deve guadagnare di essere ben poca cosa.
Ma, in ogni caso, tutti i pensatori cristiani ribadiscono il concetto biblico dell’uomo come «immagine di Dio», e lo stesso san Bernardo nel suo De diligendo deo ribadisce che l’uomo, conoscendo se stesso, scopre la sua dignità e la sua tangenza con il divino. In conclusione, la 'storia degli effetti' del «Conosci te stesso», rivela in modo sorprendente le implicanze e la portata di quell’«urto paradossale» contenuto nell’affermazione socratica, che già Kierkegaard ben metteva in rilievo: l’uomo, esaminando se stesso, viene inevitabilmente a urtare contro qualcosa di sconcertante: una possibile tangenza che l’uomo ha con la natura del divino, che per i pensatori cristiani consiste nell’essere l’uomo un’«immagine di Dio».
La risposta al motto «Conosci te stesso» con Tu «sei», significherebbe questo: tu solo sei l’Essere che è e non perisce, mentre noi siamo apparenza di essere.
Risultano ben evidenti le due linee secondo le quali è stato inteso filosoficamente il «Conosci te stesso»: 1) quella socratica che tende soprattutto a sottolineare la finitezza dell’uomo rispetto a Dio e al divino, e che quindi esorta per l’uomo a tener conto, in tutto ciò che pensa e che fa, di questa sua «finitezza» e di conseguenza a superare la propria hybris; 2) quella iniziata da Platone e sviluppata dai Neoplatonici, che nel «Conosci te stesso» cerca di fare emergere il più possibile la tangenza della parte più elevata dell’uomo (l’intelligenza della sua anima) con il divino. Ebbene, nel corso di ben quindici secoli si nota la netta preminenza della seconda linea. Clemente, per esempio, pur indicando nel «Conosci te stesso» un riconoscimento da parte dell’uomo della propria pochezza dal punto di vista ontologico e anche la coscienza dell’essere peccatore, indica in esso una ricerca dell’affinità con Dio. In Origene il «Conosci te stesso» contenuto nel versetto «Nisi cognoveris te» del Cantico dei cantici è inteso come un richiamo alla consapevolezza dell’anima dell’uomo di essere un’«immagine di Dio», con le conseguenze che questo comporta. In Gregorio Nazianzo la tangenza dell’uomo con il divino è incentrata sul logos. Analoghi concetti si leggono in Ambrogio, il quale sostiene, facendo sempre riferimento ai versetti del Cantico dei cantici, che la bellezza dell’anima dipende dalla somiglianza con Dio, e che tale bellezza, se ci si allontana da Dio, viene perduta. Anche in Agostino resta basilare l’idea dell’anima come immagine di Dio, e proprio su di essa si incentra la ben nota tesi della necessità del rientrare in se stessi per trovare Dio. Va comunque messo in rilievo il fatto che, in vario modo, i pensatori cristiani mettono in evidenza anche l’aspetto della «limitazione» dell’uomo. Ugo di san Vittore, per esempio, mette bene in evidenza che l’uomo si conosce solo rendendosi conto di essere un ente creato. E san Bernardo in particolare nella sua opera De gradibus humilitatis et sapientiae connette in modo stretto la conoscenza di sé con l’umiltà e quindi con la consapevolezza che l’uomo deve guadagnare di essere ben poca cosa.
Ma, in ogni caso, tutti i pensatori cristiani ribadiscono il concetto biblico dell’uomo come «immagine di Dio», e lo stesso san Bernardo nel suo De diligendo deo ribadisce che l’uomo, conoscendo se stesso, scopre la sua dignità e la sua tangenza con il divino. In conclusione, la 'storia degli effetti' del «Conosci te stesso», rivela in modo sorprendente le implicanze e la portata di quell’«urto paradossale» contenuto nell’affermazione socratica, che già Kierkegaard ben metteva in rilievo: l’uomo, esaminando se stesso, viene inevitabilmente a urtare contro qualcosa di sconcertante: una possibile tangenza che l’uomo ha con la natura del divino, che per i pensatori cristiani consiste nell’essere l’uomo un’«immagine di Dio».
Nella storia del pensiero ha «vinto» la linea platonica: riconoscersi limitati, sì, però anche «tangenti» al divino
«Avvenire» del 6 marzo 2011
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