Fine vita: testo necessario e sensato
di Raffaele Calabrò *
Dopo aver depositato ben otto disegni di legge in materia di Dichiarazioni anticipate di trattamento – e questo soltanto per quanto riguarda la Commissione Salute del Senato – il Pd oggi scopre che il tema del fine vita non va legiferato. Alla vigilia della discussione generale alla Camera dei Deputati, il 'mantra' che circola tra i banchi della principale opposizione e su non pochi media è che un tema come la morte non autorizza interferenze legislative (Pierluigi Castagnetti), e che la politica non può avere la pretesa di tradurre i valori in norma (Walter Veltroni).
Che la regolamentazione del «fine vita» sia una necessità ineludibile lo sa bene anche il centrosinistra. A tale proposito, cito l’incipit della relazione al disegno di legge 994, a firma ben 36 senatori del Partito democratico, come ad esempio, Bosone, Follini, Tonini, Lusi, Ceccanti, Garavaglia: «Le recenti vicende che hanno toccato la drammatica condizione dei pazienti particolarmente gravi, come Englaro, Coscioni e Welby, hanno convinto il Parlamento della necessità di elaborare una legge che venga incontro ai bisogni dei pazienti che si trovano a prendere decisioni sulle problematiche specifiche del fine vita». E ancora: «Il dibattito sul rapporto tra magistratura, politica e medicina ha intercettato alcune domande cruciali del nostro tempo [...] a cui non si riesce ancora a dare risposta».
Semplificando, si racchiude in buona parte in queste frasi la necessità della legge sul fine vita. Non solo. Il 1° agosto 2008 il Senato votava all’unanimità una mozione, a firma Zanda (vice capogruppo Pd), con la quale si impegnava l’aula a legiferare in materia di fine vita.
La cronaca è ben nota. L’invasione della magistratura nel campo legislativo, con il pretesto della vacatio legis e l’autorizzazione del giudice a staccare l’idratazione a Eluana – decisione violenta e sprezzante di quanto già si iniziava a discutere in Parlamento –, ha ancor più evidenziato l’urgenza di colmare quella lacuna legislativa, perché si stava rischiando di assistere all’introduzione di fatto dell’eutanasia nel nostro Paese. Lo Stato non poteva restare inerte, ben sapendo che quella di Eluana sarebbe stata la prima di una lunga serie di decisioni dall’epilogo così drammatico. Inoltre, uno Stato lungimirante non può non intervenire, fingendo di ignorare che l’impatto del progresso tecnologico ha assottigliato sempre più quella sottile linea che separa l’assistenza dall’accanimento terapeutico, il confine tra la vita e la morte, l’autodeterminazione dalla richiesta eutanasica.
Eccolo, l’altro punto nodale e controverso: l’esclusione della richiesta di sospensione di idratazione e alimentazione artificiale dalle Dichiarazioni anticipate di trattamento. C’è chi sostiene che una legge che non consente ciò è inutile e irrispettosa della libertà e autodeterminazione del paziente.
Resto convinto che lo scontro ideologico che fin dall’inizio ha accompagnato il dibattito sul fine vita abbia portato a una scorretta rappresentazione, se non a un travisamento, di concetti quali autodeterminazione e accanimento terapeutico.
Tant’è che c’è chi afferma, erroneamente, che la legge sulle Dat in discussione vìola i suddetti princìpi. In realtà, in questi due anni ho sempre avuto la triste sensazione che pochi abbiano letto il testo e ancor meno persone lo abbiano fatto con la mente scevra da pregiudizi. Basterebbe, infatti, un po’ di onestà intellettuale per comprendere che il provvedimento, anche dopo le recenti modifiche apportate alla Camera, sancisce con chiarezza il divieto di accanimento terapeutico, lasciando al paziente, così come vuole il principio di autodeterminazione, il diritto di scegliere anche nelle Dat se sottoporsi o rifiutare un intervento o una terapia più o meno gravosa o importante che sia, accelerando eventualmente il decorso della sua patologia.
Quello che questa legge non consente è che si chieda di sospendere idratazione e alimentazione artificiale. Trattandosi di forme di sostegno vitale, di acqua e cibo che non curano una malattia ma servono per vivere; sospenderli o consentire l’autorizzazione alla loro interruzione equivale a omicidio del consenziente o a suicidio assistito, vietati dal Codice penale. In poche parole, non si può chiedere allo Stato di farsi esecutore di morte. Se poi si rivelassero inefficaci sarà il medico, valutando le condizioni cliniche, a prendere le decisioni opportune, evitando di sconfinare nell’accanimento terapeutico. Caso per caso, in scienza e coscienza, come è giusto che sia, come è sempre stato.
Che la regolamentazione del «fine vita» sia una necessità ineludibile lo sa bene anche il centrosinistra. A tale proposito, cito l’incipit della relazione al disegno di legge 994, a firma ben 36 senatori del Partito democratico, come ad esempio, Bosone, Follini, Tonini, Lusi, Ceccanti, Garavaglia: «Le recenti vicende che hanno toccato la drammatica condizione dei pazienti particolarmente gravi, come Englaro, Coscioni e Welby, hanno convinto il Parlamento della necessità di elaborare una legge che venga incontro ai bisogni dei pazienti che si trovano a prendere decisioni sulle problematiche specifiche del fine vita». E ancora: «Il dibattito sul rapporto tra magistratura, politica e medicina ha intercettato alcune domande cruciali del nostro tempo [...] a cui non si riesce ancora a dare risposta».
Semplificando, si racchiude in buona parte in queste frasi la necessità della legge sul fine vita. Non solo. Il 1° agosto 2008 il Senato votava all’unanimità una mozione, a firma Zanda (vice capogruppo Pd), con la quale si impegnava l’aula a legiferare in materia di fine vita.
La cronaca è ben nota. L’invasione della magistratura nel campo legislativo, con il pretesto della vacatio legis e l’autorizzazione del giudice a staccare l’idratazione a Eluana – decisione violenta e sprezzante di quanto già si iniziava a discutere in Parlamento –, ha ancor più evidenziato l’urgenza di colmare quella lacuna legislativa, perché si stava rischiando di assistere all’introduzione di fatto dell’eutanasia nel nostro Paese. Lo Stato non poteva restare inerte, ben sapendo che quella di Eluana sarebbe stata la prima di una lunga serie di decisioni dall’epilogo così drammatico. Inoltre, uno Stato lungimirante non può non intervenire, fingendo di ignorare che l’impatto del progresso tecnologico ha assottigliato sempre più quella sottile linea che separa l’assistenza dall’accanimento terapeutico, il confine tra la vita e la morte, l’autodeterminazione dalla richiesta eutanasica.
Eccolo, l’altro punto nodale e controverso: l’esclusione della richiesta di sospensione di idratazione e alimentazione artificiale dalle Dichiarazioni anticipate di trattamento. C’è chi sostiene che una legge che non consente ciò è inutile e irrispettosa della libertà e autodeterminazione del paziente.
Resto convinto che lo scontro ideologico che fin dall’inizio ha accompagnato il dibattito sul fine vita abbia portato a una scorretta rappresentazione, se non a un travisamento, di concetti quali autodeterminazione e accanimento terapeutico.
Tant’è che c’è chi afferma, erroneamente, che la legge sulle Dat in discussione vìola i suddetti princìpi. In realtà, in questi due anni ho sempre avuto la triste sensazione che pochi abbiano letto il testo e ancor meno persone lo abbiano fatto con la mente scevra da pregiudizi. Basterebbe, infatti, un po’ di onestà intellettuale per comprendere che il provvedimento, anche dopo le recenti modifiche apportate alla Camera, sancisce con chiarezza il divieto di accanimento terapeutico, lasciando al paziente, così come vuole il principio di autodeterminazione, il diritto di scegliere anche nelle Dat se sottoporsi o rifiutare un intervento o una terapia più o meno gravosa o importante che sia, accelerando eventualmente il decorso della sua patologia.
Quello che questa legge non consente è che si chieda di sospendere idratazione e alimentazione artificiale. Trattandosi di forme di sostegno vitale, di acqua e cibo che non curano una malattia ma servono per vivere; sospenderli o consentire l’autorizzazione alla loro interruzione equivale a omicidio del consenziente o a suicidio assistito, vietati dal Codice penale. In poche parole, non si può chiedere allo Stato di farsi esecutore di morte. Se poi si rivelassero inefficaci sarà il medico, valutando le condizioni cliniche, a prendere le decisioni opportune, evitando di sconfinare nell’accanimento terapeutico. Caso per caso, in scienza e coscienza, come è giusto che sia, come è sempre stato.
* senatore del Pdl, relatore della legge a Palazzo Madama
«Avvenire» del 6 marzo 2011
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